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R Recensione

7/10

GoGo Penguin

Man Made Object

La musica dei GoGo Penguin, a suo modo, è come un prisma: ricchissima di sfaccettature. Se colpita dalla luce, si evolve in un turbinio di colori. Quando rimane in ombra, è in grado di far sentire la sua presenza. Rifulge, pura. Respira, nirvanica. Chi, per serendipità, si imbattesse nel nome, abbia l’accortezza di devolvere quattro minuti della propria esistenza alla storia non verbale di “Murmuration”, il brano d’apertura di “v2.0” (2014): un avventuroso crocevia post-moderno, in cui si intrecciano le minimalistiche profondità narrative del negletto Wim Mertens di “After Virtue” (1988), le progressioni del jazz-hop, i landscapes della musica per aeroporti e i climax di certo post rock cameristico à la Cinematic Orchestra. In duecentoquaranta secondi (o poco più) è racchiuso lo scopo e il senso di un trio di Manchester che, nel giro di appena tre dischi, ha percorso a passi lunghi e distesi almeno il milione di scale che separano l’anonimato da un contratto con la Blue Note. Vero, l’accademia ha il peso che uno ritiene di attribuirle, specialmente oggi, ma nessun riconoscimento fu più meritato di questo. I GoGo Penguin non sono solamente giovani e coraggiosi: scrivono e suonano della musica straordinariamente bella, imprevedibile, emozionante.

Spetta al tocco delicato di Chris Illingworth e agli archi tremolanti di Nick Blacka alzare il sipario su una “All Res” che, da subito, sembra farsi drammatica didascalia Constellation: ma passa una quarantina di secondi, e la prima vibrazione della cassa chiarisce subito le idee dell’ascoltatore novello su cosa sarà l’elemento centrale dell’intero disco e, soprattutto, perché. Lo stile di Rob Turner è lontano anni luce da qualsiasi batterista jazz voi abbiate in mente: nervoso, ritmatissimo, polimorfico, impostato su una variazione continua di filler e breakbeats e su una straripante presenza fisica. L’impressione, fondata, è quella di un musicista di elettronica analogica prestato al Conservatorio. Generatasi come fugace scintilla, “All Res” cresce, diventa un fiume in piena, si sfoga impetuosamente in un turbinio di note avvolgenti e si ritira di colpo, come una bassa marea respinta dalla propria luna. C’è giusto il tempo di sgomberare il proscenio ed ecco che interviene la frase saltabeccante di “Unspeakable World”, un bislacco saliscendi art pop (sentite cosa combina la ritmica: come dei Massive Attack innamorati di Charles Mingus) contrappuntato da ariosi slanci meditativi. Philip Glass out of a glass cage. Classica contemporanea per gli appassionati di software digitali.

I software digitali, già. Prima di venire riarrangiate in assetto piano-basso-batteria, le strumentali di “Man Made Object” erano dei semplici bozzetti elettronici, composti da Turner grazie all’aiuto di Logic e Ableton: una pressoché perfetta compenetrazione di umano e meccanico (relazione concettuale da cui, non a caso, prende spunto il disco, e a cui ritornano i tre bei remix di “Unspeakable World”, “Initiate” e “All Res” contenuti nell’edizione deluxe). Pare davvero difficile da credere, a sentire cosa sia stato in grado di tirare fuori il trio da una serie di nude indicazioni ritmiche: eppure. Martella come in una drum’n’bass spuria e rinnegata, il drum kit di “Weird Cat”, ma le progressioni armoniche del brano sono degne di stare vicino al miglior jazz pianistico americano dei decenni passati. La solare head in loop di “Quiet Mind” è il pretesto per una serie di improvvisazioni cinematiche su scala. L’incalzante pesticciare basso-batteria di “Smarra” rivitalizza una semplice melodia (dall’accompagnamento arabescato) condotta su una manciata di accordi: la corsa si ferma poi bruscamente, interrotta dalla saturazione modulare delle frequenze, per vagare infine, spettrale, in una valle di droni. “Initiate”, poi, è il brano soul (ma con un vago feeling à la Mehldau nel dipanarsi della melodia) che le riviste musicali di tutto il mondo si dimenticheranno – colpevolmente – di mettere nella classifica di fine anno.

Rispetto a “v2.0”, che rimane il loro vertice, “Man Made Object” ha almeno un paio di lenti di troppo: non ci riferiamo tanto all’onesto omaggio a Gershwin di “Gbfisysih”, quanto alla cassa dritta di “Branches Break” e ad una “Surrender To Mountain” eccessivamente incline al melismo. Per onestà intellettuale, si deve ammettere che la “Protest” di fine scaletta, devastante e tumultuosa (come una versione sotto steroidi dei nostrani VeryShortShorts!), redimerebbe anche un morto e sarebbe la consacrazione per una grande band, la chiusura perfetta per il disco jazz del 2016. Se non fosse che il disco jazz del 2016 è stato scritto dai BADBADNOTGOOD.

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