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R Recensione

8/10

Bill Evans

Conversations with Myself

Ascoltare un lavoro di Bill Evans, se l'atmosfera e la forma mentis sono quelle giuste, può portare al collasso emozionale, perché il pianista indaga (anche se non sempre) gli stati terminali della malinconia e della solitudine, ma lo fa quasi con serenità, con misurata rassegnazione, con nobile compostezza.

Figuriamoci cosa succede se ne ascolti tre contemporaneamente: non tre lavori, ma tre Bill Evans diversi, l'uno sovrappposto all'altro, l'uno immerso a pieno nella mente dell'altro.

Il rigoroso autobiografismo del pianista trova la sua espressione più candida in “Conversations with myself”, pubblicato nel 1963, e il titolo è quanto di più simbolico possa esistere.

Il lavoro è a suo modo rivoluzionario, anche se più a livello di sound che in termini stilistici.

E' vero, il linguaggio modale trova nuovi sbocchi, Evans si concentra sulle intuizioni melodiche abbattendo ulteriormente ogni restrizione armonica, e questo pur muovendosi sempre nell'ambito dei confini tracciati dagli standard del jazz e della musica popolare in genere.

E' però soprattutto l'approccio a rimescolare le carte in tavola, perché l'opera è sottoposta a una vasta operazione di restyling. Evans registra tre movimenti diversi per ogni brano, prendendo spunto dalle successioni di accordi base dei vari classici coverizzati, e quindi crea un ambiente sonoro saturo e pulsante grazie all'overdub, che gli consente di sovraincidere le diverse interpretazioni compattandole dentro un unico pezzo.

L'impatto con una simile concezione, ispirata forse dagli esperimenti più radicali di Lennie Tristano (il primo jazzista seriamente intenzionato a giocare con i nastri), non è agevole.

L'impressione è quella di una jungla di suoni, la labirintite è dietro l'angolo: le diverse anime dell'autore si immedesimano una nell'altra, si fondono dentro una vasca fino a diventare irriconoscibili, e a volte può sembrare che la carne al fuoco sia troppa e che la confusione sia a un passo. E' un disco difficile, che va esplorato e assimilato passo dopo passo, perché richiede dedizione e passione.

Tutte le anime di Evans, dicevo: il cronista lirico e appassionato, il severo studioso, il teorico della musica, l'improvvisatore istintivo e il rigoroso calcolatore, l'interprete aulico alle prese con un repertorio popolare.

Conversations with myself” è tutto questo, ma è soprattutto la geniale intuizione di un musicista aristocratico che gioca con il materiale messo a disposizione della sua era. Mentre si confronta con tutte le possibili versioni e concezioni della sua persona sfruttando la tecnologia: una conversazione con il proprio Io che racchiude e rappresenta l'essenza stessa dell'artista e dell'uomo Bill Evans.

Un uomo tanto introverso e timido da scoraggiare qualsiasi tipo di intrusione, un musicista perso in un solipsimo destinato a sfociare in una solitudine umana e artistica appena lenita dalle amicizie e dai rapporti più stretti.

Seguire le linee evolutive di ogni pezzo è difficile: personalmente ho provato a concentrami sulle singole esecuzioni (curiosamente, è lo stesso approccio che ho usato con “Trout Mask Replica”) per lucidarmi le idee, e qualcosa di nuovo sono riuscito a cogliere, ma il marasma sonoro, per quanto cristallino, calibrato, a suo modo ordinato, è restio a farsi abbracciare in pieno. Come ho detto, serve tempo.

Quasi che fosse impossibile vedere il cuore delle complesse strutture, delle inusuali armonizzazioni ideate dall'autore. I temi-base sono riconoscibili (è sufficiente ascoltare il celebre incipit genialmente sbilenco di “'Round Midnight”, il capolavoro di Monk), ma Evans si diverte (?) a deformarli. Sposta continuamente il baricentro, devia l'attenzione da una mano all'altra.

L'impressione è sempre quella di un sound sofisticato, di un artista raffinato e nobile, ma tutto diventa un filo più convulso della media.

Il tema romantico di Spartacus, nelle mani di Bill, si apre squarci di luce, si muove nostalgico, fervido, quasi cantabile. La narrazione si fa altamente psicologica, si regge sopra allucinazioni e sospiri, ora gentile ora lievemente isterica. Il brano lentamente si frantuma in gocce di colore. "Stella by Starlight" è altrettanto densa, è un susseguirsi di chiaroscuri, un racconto inesorabile.

La verità è che Evans sviluppa l'ennesimo, tormentato monologo interiore (è un artista indie ante litteram), esasperando le qualità naturali della propria arte e immergendole in un ambiente sonoro corposo, che arriva a creare sconcerto, disarmo.

Ma che può regalare momenti e soddisfazioni importanti, usando il giusto approccio: è esattamente ciò che vi consiglio di fare, difficilmente ne resterete delusi.

V Voti

Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 4 voti.
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C Commenti

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redbar alle 18:42 del 31 maggio 2013 ha scritto:

Bill Evans non lascia scampo: se inizi ad ascoltarlo non puoi fare a meno di ripercorrere tutta la sua vicenda umana ed artistica. E il viatico migliore è il libro su di lui scritto da Enrico Pieranunzi per Stampa Alternativa "Ritratto d'artista con pianoforte". Bravo Francesco, ottima scelta.

FrancescoB, autore, (ha votato 8 questo disco) alle 18:50 del 31 maggio 2013 ha scritto:

Mi fa piacere che apprezzi l'immenso Bill...del disco, nello specifico, che mi dici? Secondo me il tema di Spartaco a "sei mani" è fra le cose più toccanti e celestiali della sua carriera, potrei ascoltarlo per ore senza mai stancarmi, L'incipit stanco del tema, le sue tre note (la prima sospesa, le altre due a cascata, ma sempre dolcemente) sono spettacolo puro.

redbar alle 14:42 del primo giugno 2013 ha scritto:

Premesso che di Evans mi piace pressoché' tutto, concordo sulla considerazione che Conversation with myself sia un'opera che richiede tempo e concentrazione e forse, aggiungo io, può' essere apprezzata a pieno da parte di chi abbia conoscenza musicale anche dal punto di vista tecnico come esecutore. E.'un esperimento e certo non si possono trovare qui le emozioni in tempo reale e l'immediatezza dei Live al Village Vanguard.

Pero'Spartacus e' davvero una meraviglia.

FrancescoB, autore, (ha votato 8 questo disco) alle 14:50 del primo giugno 2013 ha scritto:

Eh io non sono un esecutore, possiedo qualche nozione teorica ma tecnica vera niente di niente. Condivido in genere che, anche se non sempre, molto spesso la musica di Bill - ad un primo impatto - è musica per "musicisti".

Il suo bello sta però anche e soprattutto nella capacità di rivelarsi ricchissima di sfumature e trascinante (in tutti i sensi) anche per chi non possiede una specifica preparazione tecnica. Il suo tocco e la sua capacità di liberare la melodia in modo impareggiabile sono il vero punto di forza, certo arricchito (e forse reso possibile) da una preparazione e da una maestria uniche.

Bill, come Jarrett, Monk e pochi altri muove corde uniche: è questo che me lo fa preferire, per dire, ad un virtuoso inarrivabile come Art Tatum, che forse è amato proprio da chi rimane sbalordito da quello che fa con la tastiera, più che dalla forza "emotiva" delle composizioni.

redbar alle 15:20 del primo giugno 2013 ha scritto:

Sono d'accordo e pur non avendo formazione musicale tecnica, apprezzo pienamente Evans e gli altri artisti da te citati. A proposito ,da qualche parte c'è' un Somewhere che mi attende. A presto

Utente non più registrato alle 23:05 del 2 giugno 2013 ha scritto:

Il suo tocco e quelle pause tra grappoli di note sono uniche. Un grande Maestro della tastiera

Utente non più registrat (ha votato 6 questo disco) alle 21:48 del 19 luglio 2020 ha scritto:

Seppur Evans sembra volersi mettere a nudo e ce la metta tutta per creare materiale interessante, credo che quella del pianista sovrainciso non sia proprio la sua veste migliore. I taglia e cuci del disco anzi nuocciono disgraziatamente sull'atmosfera che l'artista, sovente, vuole e riesce a creare. Quindi non ci vedo una gran qualità, in questa operazione.