Bill Evans
Conversations with Myself
Ascoltare un lavoro di Bill Evans, se l'atmosfera e la forma mentis sono quelle giuste, può portare al collasso emozionale, perché il pianista indaga (anche se non sempre) gli stati terminali della malinconia e della solitudine, ma lo fa quasi con serenità, con misurata rassegnazione, con nobile compostezza.
Figuriamoci cosa succede se ne ascolti tre contemporaneamente: non tre lavori, ma tre Bill Evans diversi, l'uno sovrappposto all'altro, l'uno immerso a pieno nella mente dell'altro.
Il rigoroso autobiografismo del pianista trova la sua espressione più candida in Conversations with myself, pubblicato nel 1963, e il titolo è quanto di più simbolico possa esistere.
Il lavoro è a suo modo rivoluzionario, anche se più a livello di sound che in termini stilistici.
E' vero, il linguaggio modale trova nuovi sbocchi, Evans si concentra sulle intuizioni melodiche abbattendo ulteriormente ogni restrizione armonica, e questo pur muovendosi sempre nell'ambito dei confini tracciati dagli standard del jazz e della musica popolare in genere.
E' però soprattutto l'approccio a rimescolare le carte in tavola, perché l'opera è sottoposta a una vasta operazione di restyling. Evans registra tre movimenti diversi per ogni brano, prendendo spunto dalle successioni di accordi base dei vari classici coverizzati, e quindi crea un ambiente sonoro saturo e pulsante grazie all'overdub, che gli consente di sovraincidere le diverse interpretazioni compattandole dentro un unico pezzo.
L'impatto con una simile concezione, ispirata forse dagli esperimenti più radicali di Lennie Tristano (il primo jazzista seriamente intenzionato a giocare con i nastri), non è agevole.
L'impressione è quella di una jungla di suoni, la labirintite è dietro l'angolo: le diverse anime dell'autore si immedesimano una nell'altra, si fondono dentro una vasca fino a diventare irriconoscibili, e a volte può sembrare che la carne al fuoco sia troppa e che la confusione sia a un passo. E' un disco difficile, che va esplorato e assimilato passo dopo passo, perché richiede dedizione e passione.
Tutte le anime di Evans, dicevo: il cronista lirico e appassionato, il severo studioso, il teorico della musica, l'improvvisatore istintivo e il rigoroso calcolatore, l'interprete aulico alle prese con un repertorio popolare.
Conversations with myself è tutto questo, ma è soprattutto la geniale intuizione di un musicista aristocratico che gioca con il materiale messo a disposizione della sua era. Mentre si confronta con tutte le possibili versioni e concezioni della sua persona sfruttando la tecnologia: una conversazione con il proprio Io che racchiude e rappresenta l'essenza stessa dell'artista e dell'uomo Bill Evans.
Un uomo tanto introverso e timido da scoraggiare qualsiasi tipo di intrusione, un musicista perso in un solipsimo destinato a sfociare in una solitudine umana e artistica appena lenita dalle amicizie e dai rapporti più stretti.
Seguire le linee evolutive di ogni pezzo è difficile: personalmente ho provato a concentrami sulle singole esecuzioni (curiosamente, è lo stesso approccio che ho usato con Trout Mask Replica) per lucidarmi le idee, e qualcosa di nuovo sono riuscito a cogliere, ma il marasma sonoro, per quanto cristallino, calibrato, a suo modo ordinato, è restio a farsi abbracciare in pieno. Come ho detto, serve tempo.
Quasi che fosse impossibile vedere il cuore delle complesse strutture, delle inusuali armonizzazioni ideate dall'autore. I temi-base sono riconoscibili (è sufficiente ascoltare il celebre incipit genialmente sbilenco di 'Round Midnight, il capolavoro di Monk), ma Evans si diverte (?) a deformarli. Sposta continuamente il baricentro, devia l'attenzione da una mano all'altra.
L'impressione è sempre quella di un sound sofisticato, di un artista raffinato e nobile, ma tutto diventa un filo più convulso della media.
Il tema romantico di Spartacus, nelle mani di Bill, si apre squarci di luce, si muove nostalgico, fervido, quasi cantabile. La narrazione si fa altamente psicologica, si regge sopra allucinazioni e sospiri, ora gentile ora lievemente isterica. Il brano lentamente si frantuma in gocce di colore. "Stella by Starlight" è altrettanto densa, è un susseguirsi di chiaroscuri, un racconto inesorabile.
La verità è che Evans sviluppa l'ennesimo, tormentato monologo interiore (è un artista indie ante litteram), esasperando le qualità naturali della propria arte e immergendole in un ambiente sonoro corposo, che arriva a creare sconcerto, disarmo.
Ma che può regalare momenti e soddisfazioni importanti, usando il giusto approccio: è esattamente ciò che vi consiglio di fare, difficilmente ne resterete delusi.
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