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R Recensione

7,5/10

John Zorn

Dreamachines

Chi si era abituato ai colori pastello e alla tenui nuances del songwriting zorniano infatuato del romanticismo, della musica da camera e del surf easy listening, era sobbalzato al calare prepotente di “Nova Express” (2011): un disco innovativo, corrucciato, potente, ostico, alla cui recensione rimandiamo qualora qualcuno desiderasse ulteriori dettagli. Per i settari e i sempliciotti, una vera e propria anomalia di percorso: una rivincita di classe, per tutti gli altri. A confondere ulteriormente le acque, peraltro, nell’incredibile ragnatela di rimandi e connessioni propria della monumentale attività di Tzadik, il magico quartetto John Medeski-Kenny Wollesen-Trevor Dunn-Joey Baron aveva registrato lo stesso anno un altro album, “At The Gates Of Paradise”, ispirato dagli scritti di William Blake e dai rinvenimenti papiracei di Nag Hammâdi. Si trattava, ilarità della sorte, di un platter jazzistico del tutto lineare ed accomodante, sulla scorta del filone “gnostico” intrapreso con “In Search Of The Miraculous” del 2009: lo stesso sfruttato alacremente dall’altra grande invenzione dell’ultimo Zorn, lo Gnostic Trio di Bill Frisell, Carol Emanuel e Wollesen, con all’attivo due prove eccellenti, “The Gnostic Preludes” (2012) e “In Lambeth – Visions From The Walled Garden Of William Blake” (2013), ed una – centrale – interlocutoria, “The Mysteries” (2013). Lo si consideri un pit stop, una ludica invasione di campo. Che “Nova Express” non fosse un esperimento isolato lo dimostra “Dreamachines”, ancora una volta idealmente scritto sotto il segno di William Burroughs: il sigillo di consacrazione dell’omonima formazione ed uno strepitoso saggio di bravura per l’eminenza grigia alla plancia di comando.

Non un briciolo di mordente si perde rispetto al capitolo precedente. Piano e vibrafono agiscono su di un piano parallelo che, per l’intersecarsi incessante di telluriche frasi modali, sembra l’aggiornamento – in formato canzone – di “Spillane”. I più arditi rilancerebbero con “Cobra”, ma i risultati non sono ancora così estremi: ciò che viene sotteso al dialogo strumentale non è tanto l’apparire e lo scomparire di quei lampi emozionali, di quegli stati di presenza semioticamente simboleggiati dall’alternarsi di colori e numeri, tipico dell’affascinante sistema teorico delle file cards, quanto un lavoro di squadra su singole sezioni che – al momento dell’esecuzione – si dispone in schemi variabili (determinati dall’estro del momento?). Si spiegano così le crepuscolari punteggiature klezmer in “Psychic Conspirators” (con Wollesen che solleva uragani dodecafonici e Baron che rinfocola incessantemente partiture schizoidi), la trama progressiva del piano di Medeski in “The Dream Machine” e la voce lirica – vagamente morriconiana, orrorifica, ombrosa – albergata in “The Third Mind”. Sembrerà pura dissociazione comportamentale, il susseguirsi di frustate free jazz in “The Wild Boys” e i piegamenti swing (come un Uri Caine novello Béla Bartók, che scrive su e per danze popolari del nuovo millennio) di “1001 Nights In Marrakech”: è, invece, il solo manifestarsi di una coerente ed unitaria visione mentale, che perviene al medesimo risultato via duplice indagine.

Rispetto a “Nova Express”, “Dreamachines” – il cui seguito del 2014, “On Leaves Of Grass”, tradirà già parte della sua eversività – merita almeno mezzo punto in più. Tre i motivi principali: la presenza di un pezzo come “Git-Le-Coeur” (Schönberg meets Argento, un finale apertissimo), una sezione ritmica letteralmente devastante (ascoltate cosa combina Baron su “The Conqueror Worm”), le urla in sottofondo che accompagnano il torrente pianistico di “Note Virus”. 

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