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R Recensione

7/10

Michelangelo Scandroglio

In The Eyes Of The Whale

Nella discussione sul rilancio internazionale del jazz italiano, inaugurata a proposito del sontuoso esordio dei Ghost Horse, si impone necessariamente qualche parola aggiuntiva su un altro first act recentemente uscito sotto l’egida di Auand, quello del gruppo che fa capo al giovane (1996!) e talentuoso contrabbassista senese Michelangelo Scandroglio. Non che “In The Eyes Of The Whale” sia un disco perfetto, tutt’altro: ma la maturità e la generale ambizione della sua scrittura, il senso di posizionamento orchestrale nella conduzione delle trame e una formazione di tutto rispetto (oltre alla sezione ritmica costituita da Scandroglio e dalle pelli di Bernardo Guerra vi sono Logan Richardson e Michele Tino al sax alto, Alessandro Lanzoni al piano, Hermon Mehari alla tromba e Peter Wilson ospite alla chitarra elettrica in quattro brani) sembrerebbero restituire l’istantanea di un jazzista già affermato, piuttosto che i primi passi di un talento promettente.

A colpire orecchio ed immaginazione anche dei più smaliziati, specialmente nei brani dal minutaggio più sostanzioso, è l’intelligente incontro di tradizione (orientativamente all’incrocio di jazz rock e post-bop) ed innovazione (qui e lì il lavoro sui suoni porta addirittura a ricordare il classical jazz hop dei GoGo Penguin). Accanto all’iniziale “Noah” (che sfrutta al massimo l’apporto solistico di tutti i musicisti, sfociando infine in una coda tumultuosa) e alla notevole “I Kill Giants”, in cui i volteggi sinestetici della chitarra fusion di Wilson si inseriscono in un dialogo strumentale circolare a metà strada tra Jarrett e Medeski, a catturare l’attenzione è la conclusiva e sferzante “When The Glimpses Are True”, estensione in formato ensemble delle intuizioni disarmoniche di act come VeryShortShorts! (il jazzcore in formato tascabile, per strumentazione classica) e plastica dimostrazione di quanto la lezione di altri coevi contrabbassisti tricolori – un nome su tutti, Caterina Palazzi – sia riuscita ad innestare nella sintassi modale elementi funzionali più spiccatamente rock (il nervoso e sciancato incalzare ritmico parla per sé). Sulla lunga distanza reggono molto bene la vitalità e l’energia dell’interplay strumentale, che solo di rado rischia di imboccare strade eccessivamente cervellotiche (la serpentina singhiozzante di “Bernard War” sembra scritta per il solo gusto del tecnicismo) o di scivolare un po’ nello stucchevole (le briose e pacificate stille swing negli inquieti cromatismi di “Disappearing, Pt. II”).

Con una carriera davanti tutta da disegnare, un esordio del genere è un biglietto da visita scritto in lettere maiuscole. Bravo Michelangelo.

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