Miles Davis
Nefertiti
Il secondo quintetto di Miles Davis è una delle cose migliori della vita.
La carriera del massimo regista e organizzatore di suoni mai comparso in ambito jazz è lunghissima e articolata in numerose fasi (quella bop e post-bop, l'era cool, il primo quintetto con Coltrane, il secondo quintetto, le statiche arie ispaniche ideate con Gil Evans, la celeberrima fase elettrica etc.).
Ma il secondo quintetto, complessivamente valutato, è forse il momento più alto. Quantomeno, se si ragiona in termini di idee, di organizzazione di suoni, di qualità complessiva della produzione.
Il gruppo di fine anni '50 era imperniato, oltre che naturalmente sulla tromba e sulla personalità del leader, sul tenore di Coltrane, che aveva la forza di un'orchestra di sassofoni. I suoi famosi changes e la sua elaboratissima complicazione armonica post-bop, condotta peraltro alla velocità della luce, erano il centro nodale della musica di Davis. Miles ritagliava le proprie idee e composizioni intorno alla furiosa espressività di Coltrane.
Il secondo quintetto mette nelle mani del leader una gamma di possibilità ancora più ampia. Perché se Miles rimane la mente e il regista occulto, la band compatta al suo interno tre musicisti di grandissima personalità e originalità, che trasformano le idee di fondo già coraggiose di per sé - in un salto nel vuoto. I dischi degli anni '60 sono in effetti fra i più complessi di tutta la produzione di Davis, non è semplice entrare in sintonia con il loro denso impasto emotivo, o comprenderne i segreti.
Herbie Hancock non ha bisogno di presentazioni, dato che si parla di uno dei pianisti più significativi della sua era, capace anche nelle vesti di band leader di dare vita a capolavori da consegnare ai posteri (Empyrean Isles). Il suo approccio post-modale, liquido e dilatato, è uno dei segreti della musica del gruppo.
Tony Williams è un batterista incredibile, che stordisce anche chi, come il sottoscritto, non ha mai preso in mano una bacchetta: la sua discontinuità ritmica è visionaria, ma più che altro pare astratto, benché di grandissimo impatto fisico, tutto il complesso di poliritmi ideato dal diciottenne (!). Che trascina la musica, la strattona, la porta dove vuole: Williams emancipa la batteria dal ruolo di beat-maker per trasformarla in una voce solista. E il suo virtuosismo inarrivabile (che mi interessa fino a un certo punto) è fortunatamente solo una parte della storia: Tony possiede un dinamismo naturale unico, e sembra usare due cervelli diversi mentre suona, potendo condurre il ritmo su due piani diversi (appunto, una poliritmia quasi da musica elettronica polistrumentale, tutta nelle mani di un ragazzino quasi minorenne!).
Il terzo e ancor più importante tassello, scelto con cura da un Davis sempre lucidissimo, è il sassofonista tenore Wayne Shorter. Che è stilisticamente figlio di Coltrane, ma che mette moltissimo del suo.
Per prima cosa, una vastità di idee in sede compositiva senza eguali: nel suo caso, gli intricatissimi e furibondi giri di Coltrane di dipanano in strutture più aperte e al contempo irregolari, sghembe, segmentate.
Le sue linee melodiche sono originalissime, sorrette sopra un sinistro equilibrio, discontinue e per questo meno travolgenti di quelle del maestro, ma al contempo più ariose. Shorter non rovescia l'armonia tradizionale e non la butta dalla finestra come Coleman & C., ma ne fornisce una nuova lettura: minimale, sorniona, lievemente sbilenca, liberata dalla catena delle forme tradizionali della canzone e degli standard (i famosi aaba & C.)
Se Coltrane è in perenne, lucidissimo stream of consciousness, Shorter trova una forma di equilibrio più misurata, ma non meno strana.
Arriviamo a Nefertiti, terza fatica del quintetto pubblicata nel 1968, e a mio modo di vedere la sua opera maggiore.
Ispirati dal rivoluzionario Shorter, qui anche Hancock e Williams danno il loro contributo in sede compositiva. Ma tutto si svolge sotto lo sguardo severo e attento di Miles, che impronta la musica, la domina, compie le scelte fondamentali in sede esecutiva. Vuole che tutto funzioni in un certo modo e naturalmente non fallisce l'impresa.
La title-track è stranissima, dimostra che Shorter e Davis si muovo con disinvoltura verso il futuro senza adottare gli stilemi del free jazz: insomma, i due concepiscono una nuova musica di rottura.
Nefertiti è strana perché sax e tromba buttano a mare tutte le convenzioni sull'improvvisazione bop e le sue regole, ripetendo di fatto sempre la stessa frase, una melodia straniante, lievemente acidula, bellissima, naturalmente scritta da Shorter. Il compito di improvvisare e di rovesciare la musica viene affidato a Hancock e soprattutto a Tony Williams, in una chiara inversione dei ruoli tradizionali: Williams è una macchina di ritmi contorti che si trasformano in una foschia stordente, mentre Hancock si muove agile sulla traccia di base scritta da Shorter. L'effetto è veramente dirompente, non meno originale di quello di molto free jazz degli anni '60.
Madness vede Miles nel ruolo di protagonista, mentre disegna melodie brevi e concatenate fra loro in modo ambiguo: il suo suono è leggermente meno solenne e impettito del solito, più veloce e aggressivo, ma anche libero. Essenziale è il contributo del bassista Ron Carter che costruisce giri e rigiri gonfi e toccanti, laddove il solito Williams non perde un colpo e sempra danzare leggerissimo sulla batteria, dentro la sua schiuma di ritmi contorti.
L'altro luogo imprescindibile del disco è la stupenda Pinocchio, l'ennesimo saggio di un illuminato shorterismo: ancora una volta la melodia si libera da ogni vincolo, eppure rimane leggibile, sorretta sopra un impalpabile equilibrio che sembra voler reinventare i rapporti fra la forza comunicativa della narrazione melodica e il raziocinio strutturale dell'armonia classica. Miles improvvisa libero dai dettami del tema mentre Williams nella sostanza apporta rapide, continue variazioni in un duetto che poi vede irrompere Shorter all'unisono con Davis.
Ancora una volta l'eloquio di Wayne è cristallino eppure tortuoso, imprevedibile, abile nel giocare con dissonanze e contrasti appenna accennati, eppure decisivi: il discorso di Shorter è meno affannato di quello di Trane, ma non meno originale, per un orecchio attento.
Hands Jive è firmata da Williams e affianca al pullitissimo tema modale le scorribande alla velocità della luce delle sue percussioni: la complessità dirompente del discorso ritmico è tale che, durante il primo ascolto, confesso di essere andato alla ricerca del nome del secondo batterista (!).
Il disco, al di là dei complessi discorsi strutturali, funziona anche sul piano dell'impatto emotivo: un impatto controllato, calcolato, meno accecante di quello del jazz libero, ma non meno originale. Davis e Shorter, appunto, portano la musica verso nuove forme di libertà, meno radicali e iconoclaste rispetto a quella del free, ma altrettanto interessanti.
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