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R Recensione

5/10

Kamasi Washington

Becoming O.S.T.

Rattrista – specialmente per chi, come il sottoscritto, in passato non ha certo lesinato parole al miele – telegrafare la parabola discendente di Kamasi Washington, che nel giro di appena un lustro è passato dal forgiare una delle esperienze estetiche più travolgenti e totalizzanti del jazz contemporaneo (“The Epic”) a scrivere la colonna sonora del documentario di Nadia Hallgren su Michelle Robinson in Obama: un lavoro di caratura così modesta che, firmato da qualcun altro, sarebbe con ogni probabilità passato del tutto inosservato. Attenzione: il riferimento non è né alla concisione del formato (una scelta che, al contrario, eradica quasi del tutto i pesanti difetti strutturali dell’elefantiaco “Heaven And Earth”), né tantomeno alla destinazione d’utilizzo (da sempre Kamasi flirta con la frangia più apertamente ecumenica, maggioritaria e legalista dei movimenti identitari), ma alla freschezza delle melodie e alla brillantezza delle invenzioni, che fanno segnare, in questa mezz’ora risicata, un preoccupante ristagno.

A confronto con alcune delle menti più progressiste della sua generazione, esterne (Colin Stetson, Greg Fox…) o interne (Matana Roberts, Jeff Parker) al discorso culturale d’appartenenza, ma anche con le nuove intelligenze londinesi e chicagoane di cui ci capita di parlare una settimana sì e l’altra pure, la scrittura di Kamasi non si è certo mai distinta né per innovazione né per sperimentazione: il che, ci si intenda, non è quello che si chiede al sassofonista losangelino e che, soprattutto, non è affatto un male, specialmente se il fine era quello di rendere nuovamente fruibile a livello mainstream una tradizione gloriosa. Qui, tuttavia, l’aggancio pop è così smaccato ed esplicito che, a conti fatti, non lascia spazio per altro: a susseguirsi sono una serie di piccoli abbozzi di stucchevole catchiness tra soul iperlevigato, crestomazie cool for dummies e jazz-lounge d’accatto che sembrano scritti col pilota automatico perennemente inserito. Tra una versione liofilizzata dell’ormai arciclassica “The Rhythm Changes”, una “Take In The Story” dal sentimentalismo persino caricaturale, il languido lento cripto-library di “Fashion Then And Now”, la black muzak di “Dandy”, il fiacco groove glasperiano di “Detail” e le caramellature dell’interminabile arena soul di “I Am Becoming” (quattro minuti e mezzo, ma sembrano dieci) è una strage del buon gusto, all’insegna dello stereotipo. Pochi i reali momenti d’interesse: si potrebbero citare, a preferenza soggettiva, le due parti di “Southside” (la prima fragrante jazz’n’blues, la seconda che enfatizza gli ancheggiamenti funk), il ruolo sinestetico degli archi in “Provocation” e una meditativa “Song For Fraser” che sceglie di estendersi su intervalli bossa, ma è davvero troppo poco.

Giunti a questo punto, la frase conclusiva di rito dovrebbe grossomodo suonare così: aspettiamo il prossimo disco. Il problema è che, allo stato attuale delle cose, cominciano a serpeggiare dubbi e timori.

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FrancescoB alle 18:48 del 2 giugno 2020 ha scritto:

Quoto la splendida recensione di Marco. Kamasi rischia sempre più di trasformarsi nella parodia di sé stesso, oramai le innegabili doti tecniche non riescono più a mascherare e riscattare l'inconsistenza del discorso musicale. Peccato davvero, ma tolto l'intoccabile The Epic, su cui sottoscrivo ogni sillaba di Marco, rimane troppo poco. Altri musicisti (Matana Roberts, Binker & Moses, Colin Stetson, per me anche Ambrose Akinmusire, pur se a rischio virtuosismo scolastico in alcuni momenti) hanno saputo progredire in modo decisamente più convincente.