Amy Winehouse
Back To Black
(...) è una storia un po sputtanata / è una storia sbagliata
(Fabrizio De Andrè)
Amy ha molti tatuaggi di donne nude e si sente più uomo che donna. Però non lesbica, non prima di una sambuca, comunque; Amy ha perso quattro taglie fra il primo e il secondo disco; Amy soffre un po di bulimia, un po di anoressia, non è del tutto ok, insomma, ma crede che nessuna donna lo sia mai veramente; Amy interrompe Bono (e, cazzo, se era ora! Peccato che nessuno cabbia pensato ventanni fa) durante un discorso di ringraziamento ai Q Awards; Amy vomita sul palco dun famoso locale londinese, pare a causa dunintossicazione, ma poi si riprende e continua a cantare; Amy non sa vestire: sempre a braccia scoperte, viene pizzicata piena di tagli e cicatrici dogni sorta e il suo portavoce non trova di meglio che dare la colpa ad una caduta per strada; Amy viene arrestata in Norvegia per possesso di marijuana; Amy non ha stile: se appena si fa una pipa di crack poi deve prendere sei valium per calmarsi e finisce puntualmente su YouTube; Amy ha i polmoni in cattivo arnese: quando finalmente si fa ricoverare il verdetto è enfisema polmonare. Fosse una scimmia, Amy, la caccerebbero dalla tribù.
Piano, non siamo ancora diventati pazzi o, peggio, un settimanale del gruppo Rusconi: questo è solo un breve estratto del campionario di morbosità e nefandezze, quasi tutte documentate, che i media hanno fatto girare sul suo conto. Messe così, alla rinfusa, perché si sappia che siamo a conoscenza di tutto e che non ce ne frega niente. Perché non abbiamo trovato il tempo (o il modo) di occuparci di lei assiduamente, in tempo reale, come si dice, e forse è stato meglio così. Perché a meno di sei mesi dalla pubblicazione dellultimo singolo e a più dun anno e mezzo dalluscita dellalbum, la giostra impazzita sembra finalmente sul punto darrestarsi e le sue vertigini non rischiano più di corrodere la nostra innata capacità di giudizio. Perché Amy Winehouse è molto più che una lacoontica creatura catodica (allaltro capo? A turno: un Pete Doherty, una Kate Moss, Britney Spears o Lindsay Lohan) discintamente coricata sul divanetto di un club privè di Soho. Perché il lavoro di questa dark lady pret a porter, di questa Lydia Lunch del neo soul, disossato di ogni sovrastruttura moralistica, possa rivelarsi, prospetticamente, in tutto il suo valore.
Basta sforzarsi di ascoltare attentamente un pezzo come Rehab (il che non vuol dire piazzarlo smaccatamente in sottofondo e lasciare che sia... tipo i servizi mondani di Studio Aperto) per accorgersi che la ragazza batte in cinismo e consapevolezza persino chi sul cinismo (mascherato da miti consigli) sè costruito una reputazione: lo staccato scandito dagli handclappin e doppiato dalle fanfare enfie come quelle di una big band, i contrappunti orchestrali à la Bacharach (archi, piano e vibrafono) sullo sfondo, e in primo piano il lamento sfrontato, lo shout arrotato e contorto, il miagolio sulfureo e sarcastico di una randagia che rifiuta di conformarsi al cliché notturno hollywoodiano dei vizi privati e delle pubbliche virtù. You Know Im Not Good è una cantata soul jazz proporzionata al metro dellhip hop (le sincopi di cassa e rullante, il loop del basso che sembra tolto di peso a Jump Around degli House Of Pain): e dove finiscono i meriti musicali (di Mark Ronson, in particolare) cominciano quelli letterari, con le liriche al curaro della Winehouse, affettate da rime regolari che rivendicano, forbite, puntuali e spietate, lennesima orgogliosa ammissione di solitudine e diversità.
E ancora: Me And Mr Jones, in stile Motown, con linossidabile pattern di fiati e batteria e i cori doo wop che, aggiornati ai tempi, ripetono parole dolci come fuckery e dick to me; Just Friends, stesso Tamla sound ma con andatura ska; Back To Black, una delle vette del disco, con la ritmica del piano che sembra quasi una rimembranza di New York, New York e delletà delloro dei musical, lorchestrazione spectoriana e le note in nero di Amy che non avrebbero sfigurato nella Carmen afroamericana diretta da Otto Preminger. Laltro capolavoro è Love Is A Losing Game (vincitrice del premio Ivor Novello e inserita come testo desame a Cambridge), tutta costruita sulle similitudini come una lirica amorosa del XIII secolo, una sorta di My Way al femminile con la chitarra funky che spicca sullaccompagnamento old-fashioned da canzone confidenziale (e con Amy che azzera ogni prevaricazione sessuale in un ruolo, quello del crooner, storicamente mascolino). Tears Dry On Their Own ha lincedere ascendente duno standard di Aretha, una disillusa R-E-S-P-E-C-T del nuovo millennio in cui, mutatis mutandis, uomini e donne hanno smesso di credere luno nellaltra (I shouldnt play myself again / I should just be my own best friend / Not fuck myself in the head by stupid man) o in un legame franco e duraturo (Even if I stop wanting you / A perspective pusher thru / Ill be some next mans other woman soon).
Wake Up è un numero da girl group col testo, poetico e scurissimo, che è uno splendido, simbolico intarsio di Dylan e Sylvia Plath; al cospetto di quest'ultima Some Unholy War sembra una goccia d'acqua ma punta più decisa dai paraggi della Stax. In He Can Only Hold Her il piano, metallico e ficcante, martella sullassito ritmico in modo tale che i fiati, assolti da questo compito, possono tracciare divagazioni armoniche sui beat alla SaltnPepa; Addicted gioca sul contrasto fra lrnb sincopato della sessione ritmica e larrangiamento da night club (tra gli ottoni spunta persino un clarinetto) con Amy che sbuffa la sua cocente ironia dolendosi candidamente di preferire la marijuana a nuove (dis)avventure amorose.
Un opera ai limiti dellostentata perfezione pop(ular) cucita su misura per le doti immaginifiche della più grande interprete black (in tutti i sensi, tranne che per il colore della pelle) del Regno Unito. Diffidate delle chiacchiere e, soprattutto, delle imitazioni. Di quegli ipocriti che quando lipocrisia avrà ucciso, andranno allinferno e si crederanno in paradiso.
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