Erykah Badu
The New Amerykah Part 1 (4th World War)
La regina d’Africa è tornata. Con nobile e magnanima disinvoltura ha sfilato lo scettro del nu-soul dalle mani di una delle tante Miss America usurpatrici, concedendo ad una platea sterminata di sudditi fedeli il privilegio di ascoltare di nuovo la sua voce. Buffa, sexy, scapigliata, appuntita, flessuosa, melodica, miagolante, rampante, ruscellante. Grazie ad un disco nuovo che, col senno del poi, è fin troppo facile rileggere come una sorta di profezia: la nuova Erykah, la nuova America, Obama, in questo dicembre carico come non mai di dubbi e di speranze, sembra l’enigmatico ed enigmistico scioglimento degli epigrammi d’un oracolo. Molte le cose in comune: entrambi afro-americani dalla pelle chiara (si, lo so, così non fa più tanto ridere, vero signor Presidente?), entrambi cresciuti con la nonna, entrambi legati al mondo arabo ma senza essere succubi del fanatismo, anzi, predicando buon senso, entrambi nuovi americani di successo, due che ce l’hanno fatta alle loro condizioni.
Ennesima consacrazione di quella che può essere ormai annoverata fra i più grandi autori soul contemporanei, fianco a fianco a gente come Maxwell, la divina Lauryn Hill e il “soul man” per eccellenza, D’Angelo, The New Amerikah part 1 (4th World War), compendia con ineguagliata efficacia lo stile della Badu azzeccando un’ elastica quadratura hip-hop (già nella matrice di album come Baduizm e Mama’s Gun) alla vena sperimentale del suo predecessore (il mega ep Worldwide Underground) ormai vecchio di cinque anni. Erykah taglia e cuce come in un patchwork elettronico, cita salmi strumentali dalla sacra Bibbia della musica nera, li orienta in un concept di vibrazioni cinematiche e semiautobiografiche (col raccordo di tecniche tipicamente hip hop come lo skit, il vocal, il sample), saggia la resistenza della sua forma-canzone, ne plasma i contorni in un flusso di coscienza che fa spesso e volentieri a meno dei ritornelli ma non perde nulla in freschezza e riconoscibilità.
Con l’ironica e ammiccante Amerikahn Promise apre la sua sexy campagna elettorale: intro da blackexploitation, cut up di sketch e voci ritmato su una base disco-funk con staccati di chitarra e fiati in evidenza e back vocals che ironizzano sulla “disponibilità” audiovisiva con cui molte “colleghe” hanno costruito la loro fortuna (“Promise i’ll give you things that you can’t buy / (…) i’ll give you my lips, i’ll give my tongue, i’ll give you my thighs/ damn near anything you want”).
Con la superba The Healer allestisce una messa hip-hop di grande suggestione e spiritualità (“it’s bigger than religion, hip-hop”) fra sonagli zen, wormholes di bassi, gorgheggi da opera cinese e agrodolci riverberi psichedelici. Con Me, un soul-jazz onirico ed atmosferico, ci svela il retroscena dei suoi cinque anni di inattività, un travaglio di sconforto, stanchezza e speranza (“This year i turned 36/ Damn it seems i came so quick/ My ass and legs have gotten thick/ It’s all me” tanto per ribadire che mettersi a competere con le Rihanna di turno è tempo perso e chi vuole può tranquillamente abbeverarsi ad altra più facile fonte), prima stemperare il pezzo in uno scherzo scat per voce e tromba.
My People è una meraviglia di synth soul e rap metronomico striato di velature glitch e aerei nembi vocali. Soldier è una sublime predica contro la guerra e la criminalità pronunciata in tutta la sua smagliante ed incantatrice forma melodica sopra un battito oldschool da manuale, armonie corali e volute di flauto traverso. The Cell una danza funky, sintetica e sincopata con Erykah che chioccia, seduce, mesmerizza. Quindi rilancia con brani ancora più ambiziosi e ricercati: Twinkle, un’aria dubstep chiazzata di glitch, riverberi, intrighi vocali spasmodici e rarefatti che , nel finale, affoga la sua frenesia nei cerchi di una stasi dronico-ambientale; Master Teacher cala il soul in un bagno dub con archi in sottofondo e call and response tra fraseggi rap e cori gospel poi dopo una breve dissolvenza riprende in puro Tamla Sound anni ’70 per organo e ricami glitch in filigrana; That Hump ne mutua la struttura: impianto dub/soul, echi di theremin, atmosfera sospesa fra romanticismo e psichedelia, poi nuova dissolvenza e ripresa vintage come un classico black orchestrale di più di trent’anni fa. L’estesa Telephone è un brano lounge-soul che diluisce il suo portamento confidenziale in un rarefatto arrangiamento d’ambiente.
Poi dopo i titoli di coda (una breve ripresa del tema di Amerikahn Promise che, come una specie di trailer, preannuncia l’avvento d’un secondo capitolo), quando fortunatamente è già troppo tardi per cambiare idea su questo disco, piomba il pezzo più scontato, la preannunciata Honey, l’unico vero singolo nu soul del lotto.
Tra i primi dieci del 2008? Yes We Can.
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