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R Recensione

6,5/10

Mumpbeak

Tooth

Come molti estemporanei progetti targati RareNoise, anche i Mumpbeak dell’eccentrico Roy Powell si erano fatti notare, qualche anno fa, per un bislacco esordio la cui opulenza di nomi all’opera era inversamente proporzionale all’organicità del risultato finale, poco più di un’estrosa jam prog-fusion senza ulteriori pretese tra amici e colleghi strumentisti. Oggi, questo “Tooth” sorprende per almeno due ragioni: il suo giungere totalmente imprevisto (raramente questi all-star ensemble hanno vita discograficamente lunga) e il suo suonare inaspettatamente compatto. Merito, anzitutto, di una formazione più stabile (l’esagerata pensata dei quattro bassisti a rotazione viene declinata in favore del solo Lorenzo Feliciati) e, in secondo luogo, di una scrittura – se di scrittura è anche solo possibile parlare – meno tesa a catturare l’intensità esclusiva del momento, maggiormente proiettata verso una certa longevità.

Il fulminante attacco a singhiozzo di “Boot” – una successione di sconnessi pattern ritmici da sequenza morse – sembra promettere un altro volitivo bagno di sangue: in realtà il brano, come sempre dominato dai synth e dall’Hohner Clavinet geneticamente modificato di Powell, segue una strada completamente diversa, maturando in un pencolante ed oscuro jazz rock sintetico (come un Nels Cline prestato alla backing band di Carpenter). Le medesime astrazioni tornano ad intralciare il dub spiritico della successiva “Brick” (gli stacchi della new entry Torstein Lofthus, letteralmente incontenibile nel funk indemoniato di “Saw”, intervengono a scombinarne il processing) per poi tramutarsi, nell’intensa “Slip”, in un tentativo di sinfonia ambient-prog costruita attorno all’iterazione compulsiva dello stesso arpeggio. Il punto di massima denervazione si raggiunge nei soundscapes dark ambient che Feliciati esibisce nella prima parte di “Caboose” (uno spigliato cabaret cripto-industrial): poi è solo assalto all’arma bianca, con una “Cot” che esplode in una virtuosistica, ossessiva, assordante ascensione noise (effetto garantito) e il John Medeski gran cerimoniere di rituali gobliniani nella conclusiva “Stone”.

Per una volta, un ritorno che abbia finalmente qualcosa da dire.

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