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R Recensione

7/10

The Winstons

The Winstons

Ognuno di noi – è assodato – proietta idealmente su di un artista i crismi dell’invincibilità e l’aurea dogmatica dell’infallibilità, dell’incapacità di scrivere musica non all’altezza di essere ascoltata. Il toro dorato di chi scrive è Enrico Gabrielli, il suo poderosissimo curriculum il sigillo di fuoco validante quanto espresso. Si legga il semestre abbondante che intercorre tra l’uscita dell’omonimo first act di The Winstons – supergruppo che mette assieme Gabrielli-Enro Winston (tastiere, sax e chi più ne ha più ne metta), Roberto Dell’Era-Rob Winston (basso, chitarra 12 corde) e Lino Gitto-Linnon Winston (batteria, tastiere) – e la stesura di questa recensione come un modesto tentativo di raffreddare entusiasmi altrimenti incontrollabili, di ponderare un giudizio che tracimava nell’idolatria. Missione riuscita in parte: ne è sì derivata una maggiore obiettività, ma anche un’analisi che ha avuto modo di approfondire i pur già rilevanti pregi. Lo si prenda come gradito effetto collaterale.

A proggheggiare, prima o poi, ci provano tutti, in Italia: i punkabbestia in cerca di nobilitazione, gli aristocratici decaduti, i principini del mercato scaraventati dalla finestra e desiderosi di rientrare dal portone principale. Sono aperte le speculazioni sociologiche sulle ragioni intime ed ultime di tale morbosa attrazione. Molto pochi sono, a margine, quelli capaci di incorporare nel proprio linguaggio, senza apparente difficoltà, gli stilemi del genere, adattarli e plasmarli a propria immagine e somiglianza. The Winstons, che pure si sbilanciano pericolosamente sull’erto crinale di un estetismo retromane facile a mutarsi in narcisismo autoreferenziale, vincono la difficile sfida di sganciare cronologicamente una delle musiche più pervicacemente legate alla propria epoca: e questo, si badi bene, non solo grazie ad un’oculata e finanche maniacale ricerca dei suoni (un piacere ascoltare dischi così, antidoti alla sciatteria e all’incompetenza oggigiorno imperanti), ma anche, e soprattutto, grazie all’astuto filtraggio di fin troppo evidenti influenze nominali. Il colino si fa allora, contemporaneamente, ricettacolo di pulviscoli, calderone di esperienze personali, prisma epistemologico attraverso il quale reinterpretare la tradizione.

E che tradizione, fra parentesi: tra il flauto traverso di “Play With The Rebels”, che suggerisce subitamente connessioni con “I Talk To The Wind” (ma il brano, grazie anche ad un cofirmatario di lusso come Gianluca De Rubertis, si avvicina maggiormente alla corrente del beat psichedelico italiano, con un ritornello quasi glam), l’inquieta lallazione wyattiana di “Nicotine Freak”, con Xabier Iriondo al soundmetak (il nonsense lirico è figlio del Picchio Dal Pozzo), la tromba di Roberto D’Azzan che disegna Maciste in technicolor sullo sfondo della psichedelia dilatata e drammatica di “…On A Dark Cloud”, una “She’s My Face” che si propone come inusitato singolo in 5/8 (quello a cui i Mariposa avrebbero teso in futuro?) e gli stop&go della favolosa “A Reason For Goodbye” (con una tortile sezione strumentale in ipercinesi, come degli Osanna sotto anfetamine), c’è di che elencare e divertirsi nel farlo. La spigolosa cavalcata space rock di “Viaggio Nel Suono A Tre Dimensioni” (il sample è estratto da un incredibile vinile del 1977 per addetti ai lavori) e le incursioni nipponiche di “カンガルー目 (Diprotodon)” (il jazz rock dei Gilgamesh rivestito di una spessa corazza crimsoniana) e “番号番号 (Number Number)” (che gattona, fiabesca, sino al palesarsi di una coda pirotecnica) chiudono la quadra di un cerchio che, in presenza di diversi interpreti, non avrebbe mai trovato una tale, convincente compiutezza.

Negli interstizi bianchi delle agende degli attori principali (un Dell’Era impegnato nel tour di “Folfiri O Folfox”, Gabrielli reduce dai bagni di folla europei per i concerti a supporto del nuovo disco di PJ Harvey) si sta già trovando posto per i brani del sophomore. Basta poco, in fondo, per colorare anche un anno infame come il corrente.

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Cioffi 8/10

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