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R Recensione

7/10

Alabama Shakes

Sound & Color

L'Alabama è un po' la Calabria degli Stati Uniti, e quindi i sound più involuti ma interessanti del Grande Continente devono arrivare necessariamente da lì.

Gli Alabama Shakes sono in larga parte bianchi e barbuti, ma vantano voce e vocalizzi neri incantevoli e raffinati, che non violentano la tradizione della musica black: si limitano a incarnarla.

Negli USA questa band gode di una certa notorietà, nonostante abbia alle spalle un solo disco. Ma per una volta è una notorietà meritata: la band rimastica una lunga sequenza di teorici luoghi comuni neri trasformandoli in qualcosa di spumeggiante e vitale.

La title-track, con il coro di tastiere carezzevoli e quasi infantili, e con tanto di prima, ariosa performance vocale “corale”, è solo il preludio. La prima caramella, il primo disegno venuto decisamente bene a Brittany Howard, chitarrista, vocalist e donna-leader della band.

Don't Wanna Fight” mette i Funkadelic (basso mai così corposo) in un ascensore con i Black Keys: la produzione fa la differenza perché sfrutta in modo ampio lo spazio sonoro (consigliatissimo un ascolto con le cuffie, che quasi porta a cartografare, se non a toccare materialmente la distanza fra gli strumenti, fra alti e bassi). Ma anche la voce, con il suo falsetto impossibile, è una discreta scarica di adrenalina. Non si tratta del solo funk moment: anche il basso tanto fisico quanto easy e melodico - di “Future People” mostra legami di sangue con George Clinton & famiglia.

Altrove il clima umido e desolato degli Stati del Sud prevale, pur mantenendo sempre una certa sinistra luce urbana, da blues elettrico: “Dunes” è strettamente imparentata con il southern rock, cui aggiunge una spruzzata di soul patinato (ma nei migliori sensi possibili); considerazioni analoghe valgono per i portentosi stop and go di “Gimme All Your Love”, blues strappato da una voce mai così scartavetrata, in un ritornello che fa a pugni con la sommessa, candida strofa.

This Feeling” è un po' Curtis Mayfield e un po' Prince, e quindi tanta roba, con la chitarra acustica che si distende quieta, mentre l'inusuale “Shoegaze” (?!) alza il volume delle chitarre e rende più aggressivo il loro l'intreccio.

I brani conclusivi progrediscono all'insegna di un gospel pop sinistro e leggermente allucinato, con la splendida voce che declama impettita, rotonda a dispetto del clima teso, malinconico (il fraseggio corale di "Over My Head", dolcemente funkadelico, è fra i momenti più belli del disco). Le chitarre continuano a fare il loro dovere, macinando blues sferzanti, ruvidi al punto giusto.

Manca forse il brano da consegnare ai posteri, ma nel complesso i ragazzi dell'Alabama dimostrano la rara capacità di non sprecare un pezzo, e anzi una nota: tutto inizia e si conclude nel momento migliore, giusto un attimo prima che si inizi a chiedersi “Ok ma quando finisce questo pezzo?”.

Direi che l'America seria è pronta a una nuova ospitata alla Casa Bianca: questo è un sound sfavillante e tortuoso, che però rimane decisamente accessibile, che può piacere proprio a tutti.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 7 voti.
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Cas 7/10
hiperwlt 6,5/10
B-B-B 8/10

C Commenti

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Cas (ha votato 7 questo disco) alle 15:51 del 24 agosto 2015 ha scritto:

d'accordo su tutta la linea: disco piacevole e dispensatore di ottimi momenti. ecco, forse un pò meno "Casa Bianca oriented" del predecessore: qui c'è più aggressività, più sfrontatezza rispetto all'esordio.