Alabama Shakes
Sound & Color
L'Alabama è un po' la Calabria degli Stati Uniti, e quindi i sound più involuti ma interessanti del Grande Continente devono arrivare necessariamente da lì.
Gli Alabama Shakes sono in larga parte bianchi e barbuti, ma vantano voce e vocalizzi neri incantevoli e raffinati, che non violentano la tradizione della musica black: si limitano a incarnarla.
Negli USA questa band gode di una certa notorietà, nonostante abbia alle spalle un solo disco. Ma per una volta è una notorietà meritata: la band rimastica una lunga sequenza di teorici luoghi comuni neri trasformandoli in qualcosa di spumeggiante e vitale.
La title-track, con il coro di tastiere carezzevoli e quasi infantili, e con tanto di prima, ariosa performance vocale corale, è solo il preludio. La prima caramella, il primo disegno venuto decisamente bene a Brittany Howard, chitarrista, vocalist e donna-leader della band.
Don't Wanna Fight mette i Funkadelic (basso mai così corposo) in un ascensore con i Black Keys: la produzione fa la differenza perché sfrutta in modo ampio lo spazio sonoro (consigliatissimo un ascolto con le cuffie, che quasi porta a cartografare, se non a toccare materialmente la distanza fra gli strumenti, fra alti e bassi). Ma anche la voce, con il suo falsetto impossibile, è una discreta scarica di adrenalina. Non si tratta del solo funk moment: anche il basso tanto fisico quanto easy e melodico - di Future People mostra legami di sangue con George Clinton & famiglia.
Altrove il clima umido e desolato degli Stati del Sud prevale, pur mantenendo sempre una certa sinistra luce urbana, da blues elettrico: Dunes è strettamente imparentata con il southern rock, cui aggiunge una spruzzata di soul patinato (ma nei migliori sensi possibili); considerazioni analoghe valgono per i portentosi stop and go di Gimme All Your Love, blues strappato da una voce mai così scartavetrata, in un ritornello che fa a pugni con la sommessa, candida strofa.
This Feeling è un po' Curtis Mayfield e un po' Prince, e quindi tanta roba, con la chitarra acustica che si distende quieta, mentre l'inusuale Shoegaze (?!) alza il volume delle chitarre e rende più aggressivo il loro l'intreccio.
I brani conclusivi progrediscono all'insegna di un gospel pop sinistro e leggermente allucinato, con la splendida voce che declama impettita, rotonda a dispetto del clima teso, malinconico (il fraseggio corale di "Over My Head", dolcemente funkadelico, è fra i momenti più belli del disco). Le chitarre continuano a fare il loro dovere, macinando blues sferzanti, ruvidi al punto giusto.
Manca forse il brano da consegnare ai posteri, ma nel complesso i ragazzi dell'Alabama dimostrano la rara capacità di non sprecare un pezzo, e anzi una nota: tutto inizia e si conclude nel momento migliore, giusto un attimo prima che si inizi a chiedersi Ok ma quando finisce questo pezzo?.
Direi che l'America seria è pronta a una nuova ospitata alla Casa Bianca: questo è un sound sfavillante e tortuoso, che però rimane decisamente accessibile, che può piacere proprio a tutti.
Tweet