Blues Pills
Lady In Gold
Un uccellino mi sussurrava allorecchio, discreto ma insistente: stai a vedere che già alla seconda tornata i Blues Pills rifanno da capo lesordio. Non era solo un sospetto: era una certezza. È noto che le certezze, per prendere quota e cementarsi, si nutrono di analogie: e quanti gruppi di genere, nel corso dellultimo decennio, abbiamo visto seguire pedissequamente i dettami del grande vecchio Neil Young, per cui un debutto deflagrante deve portare in seno i germi della decadenza immediatamente successiva, una nascita sfolgorante deve porre le basi per un trapasso fulmineo? Linesperienza, prima o poi, chiede indietro un pegno. Si attende lattacco di Lady In Gold con la rassegnazione di chi ha sviluppato una resistenza passiva alla pentatonica e sta meditando di bandire per sempre le chitarre dalla propria collezione, quandecco che il velo si squarcia: ma, vedi un po!, è un bordone di piano boogie, e il brano non assomiglia affatto a qualcosa degli Zeppelin. Sembra, piuttosto, di sentire Janis Joplin prestata ai Doors di L.A. Woman, un rnb da saloon con sottili, ma pervasive venature psych. Come a ribadire: tra il 1970 e il 2016, nulla.
La stroboscopica cover del s/t di due anni fa tratteggiava, con efficacia, il suo contenuto. Non ci va meno per il sottile Lady In Gold, ma lo scostamento fra significato e significante è, in questo caso, decisamente più pronunciato: il sophomore dei Blues Pills è, di fatto, il loro opus soul, una coerente raccolta di brani (per i nove decimi originali, ma cè anche una riuscita cover di Elements And Things di Tony Joe White, un blues solitario spappolato dal wah e gonfiato dallorganetto di Rickard Nygren) mai così autenticamente neri. La ballata strappalacrime I Felt A Change, territorio perfetto per mettere in mostra le doti vocali di una Elin Larsson accompagnata da soli piano e mellotron, se da un lato leviga un po troppo il suono selvaggio del quartetto, dallaltro riscatta i meno convincenti lenti del disco precedente, indovinando una melodia ruffiana, ma efficace e ben sostenuta: è riuscitissimo, poi, il collegamento diretto con Gone So Long, una sensuale parata vintage rock dove lelettricità si accumula per strati e il solismo del giovanissimo Dorian Sorriaux, liberatosi dai tre minuti in avanti, è nientaltro che un singulto strozzato. Solo a sprazzi la band presta al fianco alle asprezze di tanti colleghi, come nellincalzare scomposto di Wont Go Back (ben più vicina, tuttavia, ai Cream che ai Radio Moscow) o nellefficace head proto-stoner di Burned Out (nientaltro che un intenso spiritual, spinto dai valvolari e riarso dalle slide): prevalgono solidi dalle tonalità intense, ma dal perimetro morbido (Bad Talkers graffia con un groove quasi funk, Rejection sceglie la strada del call-and-response).
Ritmica compattissima e virtuosismo chitarristico ridotto al minimo: Lady In Gold è, prima di tutto, la creatura plasmata dalla personalità di Elin Larsson. Ascoltatori avvisati: se lesordio vi era sembrato mero revival, con il secondo atto si torna ancora più indietro nel tempo. A cambiare è la prospettiva: è forte la sensazione che il gruppo, e con esso le sue fortune, siano destinati a durare a lungo.
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