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R Recensione

6,5/10

Blues Pills

Lady In Gold

Un uccellino mi sussurrava all’orecchio, discreto ma insistente: stai a vedere che già alla seconda tornata i Blues Pills rifanno da capo l’esordio. Non era solo un sospetto: era una certezza. È noto che le certezze, per prendere quota e cementarsi, si nutrono di analogie: e quanti gruppi di genere, nel corso dell’ultimo decennio, abbiamo visto seguire pedissequamente i dettami del grande vecchio Neil Young, per cui un debutto deflagrante deve portare in seno i germi della decadenza immediatamente successiva, una nascita sfolgorante deve porre le basi per un trapasso fulmineo? L’inesperienza, prima o poi, chiede indietro un pegno. Si attende l’attacco di “Lady In Gold” con la rassegnazione di chi ha sviluppato una resistenza passiva alla pentatonica e sta meditando di bandire per sempre le chitarre dalla propria collezione, quand’ecco che il velo si squarcia: ma, vedi un po’!, è un bordone di piano boogie, e il brano non assomiglia affatto a qualcosa degli Zeppelin. Sembra, piuttosto, di sentire Janis Joplin prestata ai Doors di “L.A. Woman”, un r’n’b da saloon con sottili, ma pervasive venature psych. Come a ribadire: tra il 1970 e il 2016, nulla.

La stroboscopica cover del s/t di due anni fa tratteggiava, con efficacia, il suo contenuto. Non ci va meno per il sottile “Lady In Gold”, ma lo scostamento fra significato e significante è, in questo caso, decisamente più pronunciato: il sophomore dei Blues Pills è, di fatto, il loro opus soul, una coerente raccolta di brani (per i nove decimi originali, ma c’è anche una riuscita cover di “Elements And Things” di Tony Joe White, un blues solitario spappolato dal wah e gonfiato dall’organetto di Rickard Nygren) mai così autenticamente neri. La ballata strappalacrime “I Felt A Change”, territorio perfetto per mettere in mostra le doti vocali di una Elin Larsson accompagnata da soli piano e mellotron, se da un lato leviga un po’ troppo il suono selvaggio del quartetto, dall’altro riscatta i meno convincenti lenti del disco precedente, indovinando una melodia ruffiana, ma efficace e ben sostenuta: è riuscitissimo, poi, il collegamento diretto con “Gone So Long”, una sensuale parata vintage rock dove l’elettricità si accumula per strati e il solismo del giovanissimo Dorian Sorriaux, liberatosi dai tre minuti in avanti, è nient’altro che un singulto strozzato. Solo a sprazzi la band presta al fianco alle asprezze di tanti colleghi, come nell’incalzare scomposto di “Won’t Go Back” (ben più vicina, tuttavia, ai Cream che ai Radio Moscow) o nell’efficace head proto-stoner di “Burned Out” (nient’altro che un intenso spiritual, spinto dai valvolari e riarso dalle slide): prevalgono solidi dalle tonalità intense, ma dal perimetro morbido (“Bad Talkers” graffia con un groove quasi funk, “Rejection” sceglie la strada del call-and-response).

Ritmica compattissima e virtuosismo chitarristico ridotto al minimo: “Lady In Gold” è, prima di tutto, la creatura plasmata dalla personalità di Elin Larsson. Ascoltatori avvisati: se l’esordio vi era sembrato mero revival, con il secondo atto si torna ancora più indietro nel tempo. A cambiare è la prospettiva: è forte la sensazione che il gruppo, e con esso le sue fortune, siano destinati a durare a lungo.

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Voto degli utenti: 5/10 in media su 3 voti.
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