Kadhja Bonet
The Visitor
È un debutto. È un disco quasi interamente suonato e prodotto dalla sua autrice. È normale, dunque, che emani genuinità, freschezza, un fascino clandestino leggermente imperfetto. Ma poi lo riascolti, e ti sembra un piccolo classico: compiuto, rifinito, fuori dal tempo. Comè possibile che The Visitor sia questo e quello assieme?
Prima rilasciato su bandcamp in formato digitale, poi stampato in vinile per linglese Headcount in 300 copie, tra due mesi riedito per Fat Possum anche su cd, lesordio della losangelina Kadhja Bonet è semplicemente un disco di accecante bellezza, e forse basta questo a spiegare le sue reincarnazioni e il suo trasformismo camaleontico. Visto che ledizione Fat Possum uscirà a fine ottobre, mi limito qua a recensire la versione Headcount, formata da dieci brani in tutto (sei dellEp originale + quattro bonus tracks).
Non è un caso che lintroduttiva Earth Birth sembri aprire il sipario di un palcoscenico pronto per una rappresentazione favolistica: bastano i primi secondi di Honeycomb, violini in deliquio, batteria scomposta, coro con aura soul, per alzare letteralmente da terra, finché si sublima definitivamente con lingresso della voce della Bonet, che è cristallina, pulita, morbida, profonda ma capace di modularsi fino ai toni alti con eleganza sopraffina. Basta aggettivi: è una di quelle voci che fanno la differenza. La melodia che costruisce, sugli interventi degli archi e del flauto, sulle labirintiche rifrazioni attraverso cui è moltiplicata la voce, fa saltare ogni coordinata: è tropicalismo malinconico, Nancy Sinatra e Julia Holter, soul 60 e folk di ogni tempo, esotismo lussureggiante e notturno in bianco e nero, dice lamore ma anche lassenza («without a doubt, before the morning comes, I dream a bit of you»).
Ci si crede, a Kadhja Bonet, formazione classica, passione per la viola e il flauto, quando dice che a lei la rabbia non piace; la trasforma, semmai, in malinconia. In The Visitor ce nè in abbondanza, a sua volta declinata in una forma di timida dolcezza che rende il disco tuttaltro che scuro. È una controluce che a volte richiama la My Brightest Diamond più ispirata (Fair Weather Friend), altrove sfiora addirittura le sfumature tra soul e folk di Amy Winehouse (Tears for Lamont, perfetta stilettata dal sapore noir), ma lascia sempre ammirati per la capacità di riusare il repertorio in modo personale: lintro 70 della title-track non impedisce al pezzo di snodarsi in zone più moderniste (vd. il fraseggio di synth a metà pezzo), mentre la struttura stessa dei pezzi tende a sfilacciarsi, seguendo derive quasi psichedelico-narcotiche (Gramma Honey), spesso virate verso il classico (vd. lattacco di Portrait of Tracy, molto Holter anche nel prosieguo: in realtà il pezzo è un geniale rifacimento con voce di Jaco Pastorius).
The Visitor è un disco dallinnegabile alone rétro (vd. la disperante ballata orchestrale Remember the Rain), eppure non suona fuori dal suo tempo: riesce a immettere i germi del disorientamento attraverso una produzione ovattata e sottilmente umbratile, mentre la voce tende sempre a illuminare e fornire sponde di calore (This Love, laltra chicca Miss You). Non è attualissimo, tutto sommato, il tentativo di aprire una dimensione altra, di rifugio e riparo, facendo però filtrare le radici inquiete del desiderio?
Tra i dischi dellanno, e possibile nuova stella.
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