Matthew E. White
Fresh Blood
Che dietro quella barba e quella faccia da busker americano non si nascondesse il solito cantautore folk acustico lo avevamo capito fin dalle prime note di "Big Inner". Matthew E. White era qualcosa in più e il suo disco d' esordio sembrava un gioiello soul rimasto nascosto per quarant'anni. Grazie a quel disco abbiamo scoperto non solo un valido musicista (sentite come suona la chitarra qui), ma anche un fenomenale compositore e arrangiatore. Valga, in questo senso, l'ottimo lavoro svolto sul recente debutto di Nathalie Prass, un micro-capolavoro nel quale la manona di "Big White" è onnipresente. Quello che non tutti sanno, infatti, è che l'etichetta fondata da Matthew E. White (la Spacebomb Records) è una vera e propria comunità di musicisti, cantanti, arrangiatori, produttori, designer e fotografi, e che tutti questi giovani artisti hanno a disposizione uno studio di registrazione da fare invidia a quelli di Los Angeles e New York. Praticamente un paradiso.
All'interno di questo Eden audiofilo torna a muoversi, leggero come un soffio di vento nonostante la stazza, il leader e fondatore Matthew E. White. Con il supporto della sua comunità (Andy Jenkins lo aiuta con gli arrangiamenti, Cameron Ralston suona il basso, Pinson Chanselle la batteria, Trey Pollard la chitarra), la stessa che lo segue dai tempi dei Fight The Big Bull e dell'esordio solista, questo ragazzone bianco dal cuore nero realizza il suo secondo disco. Alla fine dell'anno scorso sono apparsi i primi trailer che contenevano un frammento del brano "Tranquillity", dedicato da White a Philip Seymour Hoffman nell'anniversario della sua scomparsa ("I tried to find music that felt the same. Its my best shot, and its called Tranquility. To a man that showed me, over and over, what excellence and craft is, here is a song for you"). "Tranquillity" è un brano che gode delle curiose (e ormai note) caratteristiche tipiche della scrittura di Matthew E. White, che porta la sua musica sempre più distante dal concetto di "canzone cantautoriale" e sempre più vicina ad una creazione concertata tra l'orchestra (fiati e archi) e gli strumenti acustici (basso, percussioni e la chitarra di White) in un flusso non strutturato di psichedelia e soul. Nella sua semplicità, "Tranquillity" riesce a spiazzare l'ascoltatore con una "introduzione" che supera i tre minuti tra languori soul e arrangiamenti d'archi per poi sfociare in un coro "pop" dalla linearità disarmante. Il primo singolo estratto, invece ("Rock & Roll is Cold") è pop allo stato puro, è un pezzo che dovrebbe (e magari lo farà) spopolare nelle radio, sebbene abbia nell'uso della voce in falsetto e nell'andamento blues delle caratteristiche che lo rendono comunque un brano anomalo, accentuato anche dall' effetto retrò dei cori femminili. Il testo poi ("Everybody sees that R'n'B is free/.../Gospel licks, ain't got no tricks"), è quasi un manifesto programmatico di uno che dichiara "di non essere un rocker, ma un soulman, cresciuto con la muisca soul e R'n'B. Non esiste una versione punk di Stevie Wonder. Stevie Wonder è musica profonda, a tutti i livelli".
Il livello massimo, quello che potrebbe corrispondere al capolavoro "Big Love" contenuto su "Big Inner", si raggiunge con la doppietta composta da "Fruit Trees" e "Holy Moly": la prima è un gospel che segue l'andamento ritmico "allegro" di "Rock & Rock is Cold" ma ne fraziona il tempo, creando suggestive sovrapposizioni tra il pianoforte e le voci; la seconda è un crescendo soul spettacolare, caratterizzato da un arrangiamento d'archi maestoso e punteggiato da un basso davvero degno delle migliori produzioni della Stax Records. Nelle altre tracce ricompaiono il fantasma di Curtis Mayfield e dei suoi The Impressions (o addirittura le voci "alla Delftonics" di "Feeling Good is Good Enough"), qualche tropicalismo ("Love is Deep") e reminiscenze jazz ("Take Care My Baby"), tutto mediato dalla solita sensibilità orchestrale "bianca" affine (nelle intenzioni) a certe cose di Sufjan Stevens e alla ovattata definizione "soul" dei Lambchop di "Is a Woman".
Ma a questo punto ogni tentativo di descrizione è pleonastico. Perchè più che un cantautore, Matthew E. White sembra un archeologo. Della musica e dell'anima.
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