V Video

R Recensione

7,5/10

Matthew E. White

Outer Face EP

La notizia era in effetti apparsa in un assolato e distratto 21 agosto di quest’anno sul sito della Domino 

dove si annunciava che la famosa label londinese avrebbe rilasciato, un paio di mesi dopo, il 21 ottobre per la precisione, quello che alla fine è il primo vero lp dell’amato artista di Richmond, Virginia. Non un album nuovo di zecca, ma una versione di “Big Inner”, (il primo lavoro, di fatto un ep di 7 tracce), che avrebbe incorporato un secondo ep, dal titolo “Outer Face”, contenente altre 5 nuove tracce. Essendo quindi il prodotto finale, una mera collazione dei due lavori e avendo già presentato per tempo il primo, i nostri sforzi si concentrano sul secondo capitolo. 

Mi capita di ascoltare “Outer Face”, per pura combinazione, subito dopo “Hot Buttered Soul” di Isaac Hayes. Evento tra l’altro prevedibilissimo data la mia dose quasi quotidiana di quell’album, ma questa volta la maratona sonora ha avuto un senso. Quel simpatico energumeno dal colorito biancastro e malaticcio, barbuto e solitario, triste fuori ma illuminato dentro, ha provato subito a dare un seguito al favoloso esordio dell’anno scorso, quel “Big Inner” la cui bellezza assoluta è ancora ben presente nelle orecchie e nei cuori di quei pochi, poi via via sempre maggiori, estimatori dell’album. 

La prima sensazione è che si tratti di un follow up emotivo. Tipo l’amico che ti richiama subito dopo aver riattaccato perché si era dimenticato di dirti una cosa importante. E tu lo ringrazi, tanto del pensiero quanto del fatto che quello che aveva da dirti era effettivamente importante. 

Il soul diluito su strutture funk conditi da richiami gospel e quella voce sussurrata, discreta, in falsetto nello stile del miglior neocantautorato nordamericano metafolk ambientale (Bon Iver, Volcano Choir), così come erano presenti nell’esordio, vengono riproposti in questo ep di assestamento. Di diverso c’è una nuova scala di priorità negli strumenti utilizzati in sottofondo (si passa da corni e sassofoni agli archi) e la presenza nelle retrovie di un delizioso coretto femminile, davvero molto simile a quelli di cui amava contornarsi la pelata più famosa del soul. In più un’aggiunta, in alcuni momenti, di tastiere più aggressive, che celano una volontà di voler ammiccare, senza mai entrarci veramente, a momenti più psichedelici dal passo quasi motorik (ascoltate il finale di “Hot Hot Hot” e vi farete una vostra idea). 

In generale il risultato è di aver aperto a una “orchestralità” più accentuata, calibrando meglio i riferimenti a certa musica soul e funk (da una parte c’è l’Isaac Hayes di Hot Buttered Soul, dall’altra, nei momenti dove il ritmo, specie quello del basso, crea più pathos, c’è il Curtis Mayfield versione soundtracker ), avvicinando maggiormente la sua proposta alla tradizione vera e propria. 

Alla fine “Outer Face” è un ottima chiusura di un cerchio che, a dirla tutta, girava benissimo anche solo con la sua prima parte. Poiché però della buona musica non ci si stanca mai, è graditissimo questo sophomore, come qualsiasi altra cosa che il buon Matthew e i suoi amici riuniti sotto il cappello della fantomatica Spacebomb vorranno regalarci in futuro. Lunga vita.

Franz Bungaro

Il fatto che due scribacchini sgomitino per recensire un Ep di soli cinque pezzi la dice lunga su quanto all’epoca facemmo bene a segnalare (per primi e in netto anticipo su molti, diamocela sta pacca sulla spalla) l’esordio di Matthew E. White. E fa altrettanto bene il bravo Bungaro (pacca n° 2) a tirare fuori subito un mostro sacro come Isaac Hayes, per una serie di motivi che possiamo trovare tutti in “Hot Hot Hot” (Buttered Soul?): 1) Sebbene la storia musicale di Matthew E. White sia ancora in gran parte da scrivere (mentre quella di Isaac Hayes è in pianta stabile da sempre al capitolo “Fondamenti”), è a quel livello di consapevolezza che si ambisce, nella misura in cui il ciccione bianco più nero del mondo rinuncia al suo strumento compositivo principale (il pianoforte) e in gran parte anche a quello che ama suonare dal vivo (la chitarra) per dar vita a un gospel nero, asciutto (posso scrivere acoustic-dubstep?) e così “seventies” che potrebbe finire dritto nel catalogo Stax Records. 2) L’uso dell’orchestra è così caratterizzante da ricordare il periodo d’oro della collaborazione tra Isaac Hayes e Dale Warren (ricordate chi era?, pacca n° 3), e lo stesso dicasi per l’infinita reiterazione del tema sul finale del pezzo 3) Il giro di basso che introduce “Hot Hot Hot” è blaxploitation allo stato puro, una cosa degna di Willie Hutch, Bobby Womack, Quincy Jones o Curtis Mayfield. 4) I cori femminili sono da denuncia per induzione alla prostituzione, ma punteggiano il brano in quella maniera sofisticata e ammiccante che tanto piaceva al vecchio Hayes, che con le belle donne ha sempre avuto un rapporto speciale (ricordate la copertina di “Juicy Fruits”?) 5) Al minuto 6:19 parte un frammento dell’arrangiamento d’archi di “Walk On By” o è solo autosuggestione?

Musica che eccita gli animi come non succedeva da tanto tempo. Perché è così bello, eccitarsi. E citarsi.

 Fabio Codias

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

doopcircus alle 8:34 del 16 dicembre 2013 ha scritto:

Una delle sorpres(ine) di questo fine 2013

Franz Bungaro, autore, alle 11:34 del 16 dicembre 2013 ha scritto:

già, vero Doop...preso giusto in tempo...come al solito, Storia, sulle cose belle, arriva sempre prima (degli altri)!!!