Michael Kiwanuka
Home Again
La BBC lo ha appena eletto "Sound of 2012", preferendolo a gente come Frank Ocean e Skrillex. Adele (che aveva vinto lo stesso premio nel 2008) lo ha voluto in tour rischiando - dicono - di farsi rubare la scena. I Black Keys si dichiarano suoi fan e pare stiano già incidendo qualcosa insieme a lui. La stampa inglese lo adora. Insomma, non lo stiamo scoprendo noi Michael Kiwanuka, ventiquattrenne londinese di origini ugandesi, nuova stella del soul (speriamo) mainstream internazionale. A proposito di mainstream, ormai si è capito come funziona la costruzione di un successo nell'epoca I-tunes / Youtube: esattamente come era accaduto con l'esordio di Lana del Rey, l'album di debutto diventa un contenitore di singoli già ampiamente noti, pubblicati ed eseguiti dal vivo. E' un "ritorno al passato" in linea con la tendenza "vintage" in corso. Gli anni '60 non sono presenti solo nelle melodie e nella strumentazione di questi giovani fenomeni, ma anche nel metodo di proposizione della loro musica: svanita la possibilità di secretare le incisioni fino alla data di pubblicazione, gli artisti mettono in circolazione una serie di "45 giri" attraverso le "radio" (Youtube) e i "jukebox" (I-tunes) relegando il disco vero e proprio ad un ruolo riepilogativo, e tutto questo accade proprio nello stesso momento in cui - sarà un caso, ma è così poetico! - gli appassionati riscoprono il sapore del vinile.
Nostalgia a parte, la verità è che "Tell Me a Tell", brano (ok, "singolo", ma qui sono tutti "singoli"...) di apertura di "Home Again" lo abbiamo già sentito in tutte le declinazioni: in studio (nell'EP omonimo del 2011) dal vivo in una miriade di versioni (qui al Jools Holland Show), acustica in versione "campfire" o in versione "veranda".
Il bello (della musica, dell'arte, della vita) è che questo brano si può ascoltare a ripetizione per giorni senza correre alcun rischio. Il merito è tutto di Michael: della sua voce "raw soul" incredibile, mix sublime della profondità di Otis Redding, dell'ovatta di Bill Withers (spesso omaggiato dal vivo), del respiro di Terry Callier e di tutti i riferimenti soul '60 che vi vengono in mente. E non si sta esagerando (almeno non troppo): quando le radio inglesi hanno iniziato a mandare in onda "Tell Me a Tell", sembra che alcuni ascoltatori abbiano telefonato per avere informazioni sul "brano inedito di Al Green". E poi c'è la musica. Si voglia prendere il semplice accostamento con i nomi sopra citati a garanzia di qualità di livello superiore, ma non basta. La matrice soul di Kiwanuka si sporca le mani dopo appena 30 secondi con le sue radici africane, laddove i fiati introducono (seppur brevemente) un tema tipicamente afro, lasciando spazio solo in seconda battuta al flauto, alle aperture melodiche degli archi e all'inciso in levare. E sull'intero brano aleggia l'ombra "jazzata" (possibile?) di Van Morrison e della sua "Moondance".
Ma "Tell me a Tell" è solo la punta dell'iceberg della visione musicale di Kiwanuka. Che ha la purezza e la passione del neofita assoluto: intervistato dlla BBC, Michael racconta di non aver potuto ascoltare musica durante l'infanzia perchè i genitori avevano il giradischi rotto. Così, quando ha letto "Red Hot Chili Peppers" sullo zaino di un suo compagno di classe ha dovuto chiedere spiegazioni, e poi ha messo da parte i soldi per acquistare il suo primo cd. Il secondo sarà un disco dei Nirvana e poi, "Vodoo" di D'Angelo (ah, ecco) e "Sitting on the Dock of the Bay" di Otis Redding (ah, ecco). Leggende, probabilmente alimentate dalla solita, scaltra, stampa britannica. Eppure, nei due minuti purissimi di "I'm Getting Ready" (altro singolo tratto dal secondo EP) vive quella semplicità melodica che renderebbe Ben Harper un uomo felice, come se la soluzione acustica fosse la dimensione unica e definitiva di Kiwanuka (la prima Tracy Chapman non è così lontana). "I'm Getting Ready" è nera nel cantato (una vera e propria preghiera country-gospel) almeno quanto è bianca nell'arpeggio della chitarra, che potrebbe appartenere a Nick Drake o John Martyn. Un miracolo di meticciato culturale moderno, ripetuto poco dopo in "Rest" e "Always Waiting".
Ah, poi c'è anche lui. Curtis Mayfield. Ingombrante come solo lui può essere nelle chitarre di "I'll get Along", e più in genere nella sicurezza di una scrittura soul che raggiunge vette inaccessibili per qualunque (qualunque) vivente: "Any Day Will Do Fine" rispolvera arrangiamenti d'archi e radici anni '60 talmente profonde che è impossibile non rivolgere almeno un ringraziamento ad Amy Winehouse, "Worry Walks Beside Me" presenta una nudità vocale da lacrime agli occhi (e da recupero immediato del "Live At Carnegie Hall" di Bill Withers), "Bones" prova timidamente ad accelerare i tempi a ritmo di blues, "Home Again" (il brano) fortifica in maniera definitiva il ponte USA - UK attraverso una melodia da far tremare le mani, gli occhi e il cuore. Indipendente, mainstream, nero, bianco, vecchio, giovane, Londra, New York, Kampala: non esistono categorie, colori o provenienza. Esiste il talento.
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