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R Recensione

8/10

Michael Kiwanuka

Love & Hate

Nel calderone delle produzioni "new black" recenti anche un talento puro come quello di Michael Kiwanuka poteva correre il rischio di rimanere schiacciato. Senza voler sminuire l'impatto e la meraviglia suscitati da "Home Again", durante questi quattro anni di silenzio gli ammiratori di Kiwanuka hanno trattenuto il respiro. Perché sebbene il giovane Michael si desse da fare tra tour internazionali, Mercury Prize e cover sopraffine come questa, c'era il timore che potesse passare tra le seconde linee, facendo la fine (si fa per dire eh) di quel Bill Withers al quale assomiglia tanto. Sia chiaro, Bill Withers è Bill Withers, ed è proprio per questo che difficilmente si comprendono le motivazioni di come possa essere stato messo in ombra (a posteriori) dalla concorrenza. Chissà, forse Withers non aveva la faccia di Marvin Gaye o l'eclettismo di Stevie Wonder, altrimenti non si spiega perché oggi questi ultimi siano ricordati assi più dell'autore di "Ain't No Sunshine".

  

Invece Michael - in attesa di scrivere la sua "Aint No Sunshine" o anche solo la sua "Lean On Me" - dimostra di avere coraggio e ispirazione sfruttando quel timbro vocale (definitivamente Withers) per sperimentare aperture orchestrali fuori dal tempo nei 10 minuti di "Cold Little Heart", che al primo impatto possono sembrare Floydiane (quella chitarra solista lasciata sola in mezzo ad atmosfere calde e psichedeliche) ma che sono black music al 100%, prese di peso da quell' immaginario "cinematografico" che Isaac Hayes ha lasciato in eredità parziale a Danger Mouse, che qui produce, ispira e, a differenza di molti suoi colleghi, libera dagli schemi permettendo al suo giovane amico di realizzare un pezzo d'apertura strepitoso, quasi una versione pop di "Walk on by" piena di consapevolezza, intelligenza e piacere purissimo. 

Ora, chi scrive non appartiene alla scuola di pensiero dei "produttori dipendenti" ovvero di chi crede che il produttore di un disco possa rivoluzionare (o peggio, snaturare) il "suono" di un musicista, ma è comunque evidente che in alcuni casi questo processo, semplicemente, avvenga. E se è così evidente che è il lavoro "Morriconiano" di Danger Mouse a rendere speciale "Cold Little Heart" (diciamo "Morriconiano" per "Orchestrale" un po' per metonimia un po' memori del progetto "Rome" di cui parlammo qualche tempo fa) la certezza arriva quando "Black man in a white world" ruba un giro di chitarra Afrobeat per poi recuperare il verbo (e le  percussioni) del Marvin Gaye di "What's Going On". E sarà cosi fino alla fine, soprattutto quando Michael Kiwanuka capisce che questa può essere la sua dimensione definitiva, con i cori a reiterare il tema in loop e lui comodo, vellutato e piacione come se fosse il 1972, a cantare sopra una cosa perfetta e senza tempo come "Love & Hate" e imbastire un gospel acustico come "Rule the World". O semplicemente mettendosi alle spalle tutta la concorrenza facendo quello che gli pare (può esistere un brano così "suonato" come "The Final Frame" nel 2016? Con quel solo elettrico?) e rinverdendo la tradizione degli anni migliori della Stax Records, quando ogni disco sembrava un miracolo in grado di superare l'amore e l'odio.

V Voti

Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 6 voti.
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woodjack 7,5/10
creep 7,5/10
zebra 7/10
giosue 7,5/10

C Commenti

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FrancescoB (ha votato 7,5 questo disco) alle 9:02 del 22 agosto 2016 ha scritto:

Lo proverò, ovviamente. Bravissimo Fabio.