R Recensione

8/10

Neneh Cherry

Homebrew

Neneh Cherry è la sorella di Eagle-Eye Cherry e la figlia di Don Cherry. Se il primo è artista piuttosto trascurabile, il secondo (Don) è qualcosa di più di un semplice comprimario per quanto riguarda la scena jazz. E pure la nostra Neneh non scherza, in quanto ad influenza sulla scena black inglese (e non solo).

Amy Whinehouse è in fondo una sua erede … ma prima bisogna ricordare i Massive Attack, i Portishead e tutte le varie diramazioni del Bristol sound di cui è stata certamente madrina ed anche affascinante interprete, sdoganandolo ed esportandolo per le grandi platee. Ne è (ottimo) esempio la colonna sonora di Until The End Of The World, già di per sé meravigliosa ed ulteriormente impreziosita proprio grazie alla dub version di Move With Me.

Homebrew è il suo capolavoro, datato 1992 e dedicato alla figlia neonata.

Dopo un inizio di carriera smaccatamente dance nell’89, Neneh approda in sostanza al pop: raffinato e femminile, elettronico ed africano, metropolitano e giamaicano insieme. Chitarre rock, rapping ed atmosfera soul, un po’ di synth molto eighties, spolverate abbondanti di riverberi e delay e lei (soprattutto lei) a svettare ovunque.

Apre le danze in maniera eccellente Sassy, con la carismatica presenza di Guru e del suo straordinario flow: e pare quasi di ascoltare un’outtake leggermente ossessiva di Jazzamatazz, ma è comunque Neneh è far la parte della leonessa. Come nella successiva Money Love, degna del miglior Prince più electro-rock.

Perla assoluta di questo cd è la magnifica Move With Me: nebbiosa gemma, psichedelica e dub, con i suoi sintetizzatori evocativi ed i suoi riff wave a rendere tutto più cupo, grigio e metropolitano; mentre lei sussurra, si commuove, si incazza, canta facendo cadere ai suoi piedi chiunque sia in ascolto.

Pure I Ain’t Gone Under Yet è un gioiellino: un sincopato beat soul fa da perno ad un’indolente rap guidato dalla nostra. Somedays è un oscuro ibrido tra r’n’b e downtempo, che molte dive black odierne hanno sempre studiato e difficilmente replicato. Stupisce la grintosa Trout: il duetto tra Michael Stipe e Neneh arricchisce un bel pezzo che suona come un esperimento pop dei Living Colour, con la nostra che sfodera un’interpretazione che sovrasta a livello di carisma anche il sempre meraviglioso cantante dei R.e.m.. Chiude lo swing-jazzyBristoliano di Red Paint: sensuale e materno è un perfetto abbandonarsi con la certezza di potersi sempre ritrovare.

Quindici anni e non sentirne assolutamente il peso: suoni, che oramai hanno fatto la storia e sono un patrimonio per qualunque appassionato di black, sono qui condensati con intelligenza e stile. A iosa.

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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TheManMachine (ha votato 7 questo disco) alle 23:31 del 2 febbraio 2009 ha scritto:

Mi arrapava un casino Neneh Cherry. Era sensualissima, di una sensualità per nulla studiata o costruita, ma donatale da madre natura. Sinceramente sono rimasto più legato, e lo ricordo meglio, al suo debuttto, "Raw Like Sushi", dove c'erano "Buffalo Stance" e "Moonchild", hit planetari che rilanciarono l'Urban alla grande. E già nel primo album, probabilmente, disse gran parte di quello che aveva da dire musicalmente. Con "Homebrew" non si ripetè ma casomai fornì un'ulteriore prova del proprio talento. Tanto affetto per lei e tanti ricordi. Ah, forse non tutti sanno che Neneh Cherry è svedese... Recensione essenziale ed efficace.

TheManMachine (ha votato 7 questo disco) alle 23:37 del 2 febbraio 2009 ha scritto:

ops, non *Moonchild, ma "Manchild", scusate.