R Recensione

8/10

Solomon Burke

Don't give up on me

Lo ammetto: avevo quasi smesso di crederci, avevo quasi perduto anche l'ultimo barlume di speranza.

In merito a cosa? Beh, alla qualità della musica nera pubblicata nel nuovo millennio. E con sommo dispiacere: sono nato “musicalmente” con il jazz, Mingus e Coltrane poco meno di dieci anni orsono mi hanno veramente cambiato la vita, e sono poi cresciuto, fra le altre cose, anche a massicce dosi di soul, maturando nel corso degli anni un amore viscerale per tantissima musica afro-americana.

Ecco, davanti alla grandiosità ed alla ricchezza quasi spiazzante del ‘900, per anni il decennio appena eclissatosi alle nostre spalle mi è suonato davvero povero, poverissimo: la magia del soul lungamente mi è parsa involuta in una forma piattissima di pseudo r’n’b/hip-hop, incapace persino di regalare un ritornello accattivante o un pezzo riuscito, salvo rare e sporadiche eccezioni; e così, imbronciato, per molto tempo ho osservato una tradizione tanto nobile ridotta ad un noioso cumulo di macerie, senza nessuna voglia di osare, senza nulla più da dire o da comunicare, senza nulla più da inventare. Insomma, il meglio del nuovo decennio sembrava da ricercare decisamente altrove, con buona pace di tutti i fanatici come il sottoscritto.

Fortunatamente, mi sbagliavo. Intendiamoci, non che le proposte “nere” post-‘2000 siano paragonabili, per quantità e vastità, ad alcuni momenti magici del passato. Ma di lavori validi, in alcuni casi bellissimi, ce ne sono ancora, e non sono pochi. Si pensi alla creatività elettro-visionaria di un D’Angelo, oppure a quella affascinante terra di nessuno posta al confine fra soul e musica house (Robert Owens?).

Ma non solo: si pensi ad alcuni grandi vecchi come The Bishop Solomon Burke, che bazzicavano l’America ancor prima che i Beatles divenissero famosi, e che nel 2002 riescono ancora a meravigliarci, vivendo una seconda, anzi forse terza o quarta giovinezza. Giovinezza che, per il Nostro, si materializza in quel gran disco che risponde al nome di “Don’t give up on me”. Piccolo excursus: Solomon Burke è fra i nomi storici del soul, un interprete straordinario, avvicinabile per qualità vocali e per scrittura, quantomeno nei suoi momenti migliori, a gente del calibro di Otis Redding o Ray Charles. E se il suo corpus musicale, considerato complessivamente, con ogni probabilità non vale quello di The Genius, è pur vero che il Vescovo, sebbene da tempo si diventato nonno, è ancora in grado di realizzare lavori quantomeno piacevoli e con una certa continuità, laddove Charles è artisticamente morto già negli anni ’80, se non prima.

Don’t give up on me” è invece il prodotto di un artista vivo, vivissimo. E conscio dei propri limiti: l’età è quella che è, ed il Vescovo del Soul è perfettamente consapevole del fatto che il songwriting di un uomo che ha superato i sessanta non può essere brillante ed ispirato come quello di un giovanissimo. Sottovalutando questo fattore, si rischia di cadere nella banalità più trita, in stilemi abusati, di riciclare all’infinito i medesimi spunti, suonando così solo come una stanca e sbiadita copia della grandeur del passato.

Ed allora, Burke scavalca a piè pari il problema, lasciando che siano altri a scrivere i pezzi del disco: lui si “limita”, per così dire, ad interpretarli ed a rileggerli, a farli suonare come “propri”. Sovviene subito il nome di un altro artista che ha marchiato a fuoco la storia della musica americana del ‘900, quel Johnny Cash che a 70 anni è stato ancora in grado di realizzare capolavori in serie, sfruttando e rileggendo più che altro composizioni altrui.

Indi, il merito per la bellezza di quasi tutti i pezzi di “Don’t give up on me” è da spartire equamente fra Burke ed una serie di autori leggendari tanto quanto lui, che decidono di omaggiare Il Maestro regalandogli pezzi notevoli, in alcuni casi veri e propri gioielli. Dal canto suo, Solomon impreziosisce il tutto con una voce ancora oggi eccezionale, insensibile alle ingiurie del tempo ed alle difficoltà di una vita lunga e ricca di momenti grami: Burke, per molti il più grande interprete soul di sempre, vanta tuttora un’estensione vocale impressionante, e riesce tanto a graffiare come il miglior Otis Redding, quanto a portarci in luogo mistico e fuori dal tempo, ove si incontrano la leggiadria di Sam Cooke ed il timbro caldissimo, inimitabile di Ray Charles. Ogni singola composizione non può che risultare impreziosita all’inverosimile da tanta maestria vocale. E così, “None of us are free”, pezzo firmato da vecchi sapientoni del gospel come i Blind Boys of Alabama, è una preghiera corale in crescendo che ancora echeggia di blackxploitation e di Martin Luther King, una preghiera apparentemente fuori tempo massimo ed invece tristemente molto attuale ed anche in Italia, bella come non se ne sentivano da un pezzo. “Diamond in Your Mind” è invece un brano anche liricamente Waitsiano al 100%, con il suo incedere caracollante e l’atmosfera da night club, ed è pure una ballata confidenziale che a Tom non riusciva da un tempo immemore, se si fa eccezione per alcune cose di “Alice”. Van Morrison, che da sempre stravede per Il Vescovo, firma due pezzi notevolissimi, per quanto mi riguarda molto al di sopra della sua produzione recente e forse addirittura degni di figurare (forse eh) sul Lato B di “Moondance”: mi riferisco alla discreta “Only a Dream”, riconoscibilissimo blues di stampo Morrisoniano d.o.c., ed a “Fast Train”, altra ballatona malinconica e gradevolissima. La palma di pezzo più scanzonato del disco va alla sorprendente “Soul Searchin’”, che porta la firma di un Brian Wilson dalla scrittura sempre vividissima ed a sua volta subito riconoscibile, impreziosita da un ritornello spassoso, che gioca con tre sole note eppure suona irresistibile. Da menzionare anche la dolente title-track, scritta da un autore di lungo corso come Dan Penn, compositore che alcuni decenni orsono ha firmato pezzi resi celebri da mezzo mondo della musica (da James Carr ai Flying Burrito Brothers). Le altre composizioni sono tutte godibili e quantomeno discrete, nonché impreziosite dalla varietà di un songwriting mai banale, capace di guardare a territori e tradizioni diverse (dai celti di Elvis Costello al country di Joe Henry): insomma, impossibile annoiarsi.

Quindi, cari malati di musica dell’anima, non cadete nel mio stesso errore: se già non l’avete fatto, tuffatevi il prima possibile fra le acque freschissime di questo quasi-capolavoro, ne vale davvero la pena.

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Voto degli utenti: 8,6/10 in media su 4 voti.
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C Commenti

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Emiliano (ha votato 7 questo disco) alle 15:46 del 24 gennaio 2010 ha scritto:

Una ventata d'aria fresca, davvero. Di domenica è perfetto.

FrancescoB, autore, alle 11:49 del 6 febbraio 2010 ha scritto:

Eh sì, proprio una ventata di freschezza, classe e leggiadria. Un classico del soul fuori tempo massimo, e proprio per questo ancor più figo.

max.luglio71 (ha votato 10 questo disco) alle 11:42 del 13 febbraio 2010 ha scritto:

Così pochi commenti a questo magnifico disco!

Soul impastato da una voce memorabile, ballate come non se ne scrivono più, zero nostalgia, zero autocompiacimenti. Una produzione calibrata al millimetro di Joe Henry, strumentazione parca sintonizzata sullo strumento più importante del disco: le corde vocali di Solomon Burke. Disco di abbagliante bellezza, tra i primi da menzionare del decennio scorso.

Franz Bungaro (ha votato 8,5 questo disco) alle 11:19 del 12 novembre 2013 ha scritto:

Disco eccellente, nella top ten del soul post-XXsecolo.