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R Recensione

8/10

Willis Earl Beal

Nobody Knows

Costruita meno di dieci anni fa, la metropolitana della mia città è vista dai miei concittadini come un salotto. E' pulita, ultratecnologica, asettica come una stanza d'ospedale. Chi la utilizza (e probabilmente anche chi l'ha realizzata) la concepisce come l'unica alternativa all'automobile. Sugli altri mezzi pubblici (tram e autobus) i metropolitaners non ci salirebbero neanche morti, e infatti su quei mezzi vecchi e sudici ci trovi solo gli extracomunitari che vanno al lavoro e i loro figli che vanno a scuola. Nella loro scuola, ovviamente, perchè ormai la divisione è netta: ci sono scuole interamente composte da stranieri (69 su 69 nella primaria del mio quartiere) e scuole interamente composte da italiani. Ma non è razzismo, eh. Il prezzo del biglietto della metro (o del metrò, come amano pronunciarlo da queste parti) è raddoppiato nell'arco di un paio di anni, ma nessuno si è lamentato. E' il prezzo da pagare per entrare nell' élite e tener fuori tutto il resto. Una cosa analoga a quanto fece Trenitalia con le “Frecce”, e a tal proposito realizzò anche un eloquente spot pubblicitario. Ma non è razzismo, eh.

A New York invece la metropolitana ce l'hanno da centodieci anni e hanno capito che è soltanto un mezzo di trasporto. E' economica, capillare, efficiente come dovrebbe essere qualunque “servizio pubblico”. Se vuoi fare il fighetto ti prendi un taxi (che costa poco comunque). E' una specie d'inferno dantesco, con la temperatura che in estate supera i quaranta gradi in stazione e poi scende a dieci all'interno dei convogli. E' un' esperienza estrema ma educativa, così ogni volta che togli le lasagne dal forno e le butti in figorifero sai cosa stanno provando. Però, come tutte le cose aperte all'accesso di tutti, è antropologicamente splendida. C'è il barbone seduto di fianco al manager col Macintosh sulle ginocchia, ci sono donne biondissime che tornano dalla corsetta in Central Park, c'è gente che prepara la pipetta di crack, a volte c'è un tizio armato che controlla dal fondo della carrozza ma non interviene mai, neanche quando due ragazzotti con i capelli lisciati dal gel si prendono a pugni in faccia in mezzo al corridoio. Le linee della metro di New York raccolgono e scaricano tutti i tipi umani possibili, dal milionario di Manhatthan al netturbino del Queens, che si mischiano in un amalgama umana talmente eterogenea da rendere irriconoscibile ogni differenza.

E poi ad ogni stazione c'è sempre qualcuno che suona. Se davvero quella è la città delle occasioni, nella metro scorre la sua creatività e le possibilità che essa offre, e questo gli artisti di strada lo sanno molto bene. Personalmente ho passato le giornate a cercare Danny Small ma pur non avendolo trovato, tra quartetti jazz, tenori fenomenali e busker canterini di ogni tipo, non ho mai sentito il bisogno di utilizzare un lettore mp3. Con un po' di fortuna in una situazione simile potrebbe anche capitare di ascoltare una voce come quella di Willis Earl Beal, uno che per sfuggire alla depressione si è rifugiato ad Albuquerque (in New Mexico) e lì ha cominciato a cantare nelle stazioni della metropolitana, davanti alle vetrine dei negozi o semplicemente per strada, in quella strada che era anche la sua casa. La leggenda del cantante-homeless inizia così, con questo ragazzotto di colore che canta e registra tutto su dei cd che poi abbandona per strada, sperando che qualcuno li raccolga. E per strada – tra una canzone e l'altra – distribuisce anche dei volantini come questo con i quali si offre come cantante (ma anche disegnatore, poeta, fumettista...) a domicilio. Il caso vuole che uno di questi bizzarri volantini (nel quale Willis promuoveva se stesso addirittura come “fidanzato”) finisca nelle mani di un membro della redazione di Found Magazine, che successivamente deciderà di pubblicare un box contenente i suoi disegni, le sue poesie e le sue canzoni. Successivamente sarà la Xl Recordings a pubblicare quell'esordio (“Acousmatic Sorcery”) che l'anno scorso incuriosì molti per il suo furioso mix di lo-fi, violenza urbana, soul e blues. 

Era evidente già allora che quel potenziale espresso in modo tanto creativo ma anche frammentario, fosse destinato ad essere incanalato in parametri più compiuti, che quelle idee deviate e sputate dal microfono senza filtro alcuno avessero i numeri per poter arrivare ad un pubblico più vasto. Il processo di sintesi e “scrematura” è lo stesso – per capirci – che ha portato un altro grande “nero contemporaneo”, Cody ChesnuTT, dall' esuberanza disorientata di “The Headphone Masterpiece” alla quadratura del cerchio di “Landing on a Hundred”. In mezzo, una bocciatura a X Factor (i giudici erano gente come Britney Spears e Demi Lovato eh, mica Stevie Wonder e Quincy Jones), un simpatico siparietto con Lana Del Rey utile ad aumentare l'”hype” e uno meno simpatico che gli ha causato una notte in prigione. L'esito è “Nobody Knows”, un disco compatto e tendente al sublime, sospeso tra le velleità “naif” dell'autore e la volontà dello stesso di far capire che oltre al personaggio c'è un cantante, un musicista e un produttore completo. Così, accanto alla vocalità disperata di uno che ha dichiarato di voler essere “il Tom Waits nero” (e questa è bella: un nero che vuole cantare come un bianco che canta come un nero) troviamo momenti di puro soul, raffinato al punto da sembrare “classicista”. L'immaginario raccontato da questo disperato non può che essere sempre lo stesso: Charles Bukowski, una bottiglia per amica, l'amore, le difficoltà della vita. E lo strumento principale non può che essere la voce: una voce che grida, strepita e piange ma sa anche accarezzare e sospirare. Ed è seguendo gli umori di questa voce che la musica di “Nobody Knows” passa da consueti registri “alla Tom Waits” (ma “Ain't got no Love” torna indietro nel tempo fino a Screeming Jay Hawkins) a vellutati momenti soul (“Nobody Knows”, “Blue Escape”), da scarni gospel pronti per essere cantati “a cappella” sul ciglio della strada (“Wavering Lines”, “Everything Unwinds”) a derive quasi alt-country (“White Noise” non è cosi lontano da Mark Lanegan), da blues basici (“Hole in the Roof”) ad altri blues assai più colti (“Too Dry To Cry” sembra la Nina Simone di “Be My Husband” buttata su un marciapiede). E in mezzo a tanto fervore eclettico, il nuovo Willis Earl Beal riesce a non rinunciare alle vecchie tentazioni “sperimentali” (“What's The Deal?”) e contemporaneamente a lanciare sé stesso nel magico mondo del “mainstream”, sfruttando amicizie importanti (il duetto con Cat Power in “Coming Through” ammicca così tanto che viene spontaneo auspicare un istantaneo fidanzamento) e almeno un paio di brani così perfetti che dovrebbero immediatamente invadere le radio e le classifiche: uno è “Burning Bridges”, talmente bella che sembra uscita da un disco di Otis Redding, l'altra è la conclusiva “The Flow”, ballata strappa lacrime semplicemente immensa.

La lezione quindi è questa: non credete a chi vi dice che nella vita bisogna sempre guardare avanti a testa alta. Perchè a volte i tesori, le cose per cui vale la pena alzarsi dal letto la mattina, si trovano per strada, buttate per terra. O direttamente sotto terra.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 6 voti.
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Cas 7,5/10
gull 7,5/10
salvatore 6,5/10
REBBY 6,5/10

C Commenti

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Cas (ha votato 7,5 questo disco) alle 14:52 del 11 ottobre 2013 ha scritto:

questo è un disco davvero forte, senza parlare di un personaggio che ha dell'incredibile. mi piacerebbe sentire l'esordio, a questo punto, per avere una visione più completa di questo Nobody Knows. Ottima recensione, ça va sans dire...

Franz Bungaro (ha votato 8 questo disco) alle 19:34 del 11 ottobre 2013 ha scritto:

Cas, se hai fatto la bocca a questo, con il primo potresti rimanerci male...il primo va vissuto, questo va ascoltato perché è puro godimento...secondo me sono due bei momenti entrambi...

Cas (ha votato 7,5 questo disco) alle 19:45 del 11 ottobre 2013 ha scritto:

del primo ho sentito qualcosa live e devo dire che il risultato è stato buono. appena possibile ti farò sapere sotto la tua rece.

ottima operazione congiunta ragazzi

gull (ha votato 7,5 questo disco) alle 20:16 del 31 ottobre 2013 ha scritto:

Nutrivo parecchi timori, ed invece il nostro sfodera una scrittura di livello (superiore e di molto all'esordio, che però ha altre frecce, altrettanto coinvolgenti) ed un pezzo bello dopo l'altro. Qualche paraculata (tipo il duetto con Cat Power), qualche laccatura di troppo ("Blue Escape" ad esempio), ma ciò non inficia il complesso valore del disco. Al tempo stesso classico e personale (ma si può?), lineare ma intrigante e particolare (ma si può?). Tra i miei ascolti preferiti in questo periodo. Molto d'accordo con il parallelo che hai fatto con il percorso artistico di Cody Chesnutt. Entrambi hanno realizzato un piccolo miracolo: restare interessanti ed anzi superarsi pur rendendosi più puliti e spendibili verso un pubblico più vasto.

LucaJoker19_ alle 22:21 del 2 gennaio 2016 ha scritto:

è stupendo questo disco, sono passati 2 anni da quando l'ho ascoltato e ancora devo recuperare il primo . la mia preferita : ain't got no love .