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R Recensione

6/10

Serj Tankian

Jazz-Iz Christ

La storia di Soghomon Gevorki Soghomonyan, Komitas dopo la tonsura monacale (“Vardapet” è l'epiteto con il quale gli armeni designano il “padre” in senso strettamente religioso), è estremamente interessante e incredibilmente struggente. Padre Komitas fu, ancor prima che pope, studioso e musicologo, figura di genio errante per la propria terra natia alla ricerca erudita di canti e danze popolari da reinterpretare, in un secondo momento, con il coro polifonico – da lui diretto – del seminario di Echmiadzin, caput mundi della spiritualità armena. Siamo nell'epoca in cui la questione dell'identità nazionale, a cent'anni e passa dai Volkslieder di Herder, dalle favole dei fratelli Grimm, dai canti serbo-croati raccolti dal Fortis e dal “morlacchismo di Omero” di Giulio Bajamonti, dall'ossessione del recupero di una classicità morale, civile e artistica (si vedano le speculazioni di Winckelmann e le evocazioni di Ode On A Grecian Urn di Keats, con sottotesto esplicitamente kantiano), ritorna all'ordine del giorno, in una curiosità etnografica che fa spesso il paio con una schietta ed acritica ammirazione dell'”esotico” e del “popolare”: vi sono Béla Bartòk e la questione omerica, gli indiani d'America e le donne tahitiane nel periodo immediatamente precedente e successivo alla prima guerra mondiale. Komitas lavora, facendo conoscere l'Armenia a livello internazionale, nel primo decennio del XX secolo, girando con il fonografo di villaggio in villaggio per registrare gli originali orali, sfruttando le nuove tecniche di incisione che si andavano sviluppando allora in occidente. Una personalità tutta d'un pezzo, il cui equilibrio s'infrangerà contro il muro del genocidio armeno perpetrato da un Impero Ottomano in completo disfacimento: verrà prelevato, lui che già da qualche tempo viveva ad Istanbul, e deportato in Anatolia centrale, dove impazzirà (si dice per disperazione, per essere venuto a conoscenza della perdita e della distruzione di gran parte delle sue musiche) fino ad essere internato in un manicomio parigino.

Al centro dell'avventura jazz (meglio, autodefinitasi tale...) di Serj Tankian troneggia “Garuna”, che di Komitas Vardapet è cover e omaggio allo stesso tempo. L'originale, catturato nel 1912 e scampato alla furia del tempo ed alla cattiveria umana, è un excerpt liturgico, una breve litania accompagnata da lontani grappoli di note, dove la voce del pope salmodia, a mo' di messa cantata, una malinconica melodia turcizzante. Tankian rinvigorisce appena il nocciolo pianistico, con la bella mano di Tigran Hamasyan vagamente Wim Mertens, rivestendo a dismisura – come suo solito – le linee vocali di emozionalità drammatica. Un'invocazione intima che diviene spettacolo teatrale. Il brano, inevitabilmente, si scarica subito, perde di forza ed intensità e gronda melassa da ogni poro. Un peccato, per svariati motivi. Il ricordo dello sfortunato conterraneo era, anzitutto, ben più che apprezzabile e doveroso, se non altro per portare alla luce la sua storia personale, ancor oggi misconosciuta da troppi. In secondo luogo, in nessun modo “Garuna”, pure eretta a simbolo, testimonia il mood generale dell'intero “Jazz-Iz Christ” (calembour, francamente, da Bagaglino). Ancora, la parentesi di composta serietà che sembra intrappolare l'opera in un'asettica bolla di sapone è tutto fuorché veritiera, e subito l'operazione, fuori dai propri stretti confini, sembra sfaldarsi.

Detto già di “Harakiri” prima, di “Orca” poi, a discettare di “Jazz-Iz Christ” prendendo costantemente in esame quel monosillabo che compare nel titolo non si va da nessuna parte. Come “Elect The Dead” non era il suo disco prog, ed “Imperfect Harmonies” non era affatto quella grandiosa miscela “electro-orchestral-jazz-rock”, “Jazz-Iz Christ” non è il disco jazz di Serj Tankian, non nella misura in cui viene fatto credere. Perso tra strumentali e brani cantati, tra esperimenti dada ed il bisogno surreale, feticista della “canzone” compresa in sé stessa, tra minimalismo e formazione allargata, il quinto (!) lavoro solista del frontman dei System Of A Down è un collage di ambizione e vaneggiamento, di astrattismo e pragmatismo: un viaggio intrigante, per quanto fin troppo lungo, e completamente privo di bilanciamento interno, di prospettiva focale. Si passa, in breve, dalla schizofrenia istrionica di “Through Nights And Hopes”, partitura da cabaret morbidamente seghettata, dalle sornione spazzole di “Jinn” travolte da una carica di ottoni liberamente sparigliati (con allucinato interludio psych, come dei Flaming Lips seriamente dementi), dall'arioso Brubeck frustato da pulsazioni elettroniche e scale tonali di “Fish Don't Scream” ad una magrissima sezione centrale di noiose ballate pianistiche dove, oltre alla già citata “Garuna”, fa capolino il romanticismo crepuscolare di “Distant Thing” e l'esile tromba di “Song Of Sand”: non un'idea da ricordare in tre brani.

Tankian, per scorciare, non ha trovato ancora la sua quadra da solista. E se rimane ammirevole il tentativo di mettersi alla prova con linguaggi diversi dal suo, è altrettanto palese che permane una certa loro incomprensione di base, che crea equivoci e distorsioni nel susseguente impiego. Il “jazz” del musicista armeno, insomma, è qualcosa di molto vicino a quello swing che sempre, dove più dove meno, colorava le pulsioni, le nervature della band madre: chiarissimo nel passo quadrato di “End Of Time”, nello spleen pop rock di “Balcony Chats”, dove straordinario è l'apporto del flauto di Valeri Tolstov, nella sordina che infiamma i lontani rintocchi di “Scotch In China” e nella parata cool di “Papa Blue”. Nessun vero alambicco, se non en passant, in superficie. Tanto che lo si attende dall'inizio, lo si teme quasi, lo svacco finale, che puntualmente arriva: “Miso Soup” è l'episodio demenziale del lotto, irrilevante sirtaki condito da sovraincisioni vocali e un testo all'altezza della vecchia “Chic'n'Stu”. Sul ponte sventola bandiera bianca.

Un Serj Tankian, per l'ennesima volta, a metà. C'è da tempo chi è pronto a scommettere che, a mezzo servizio, rimarrà sempre, lontano dai System Of A Down...

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