Fatoumata Diawara
Fatou
Avviso ai lettori di sesso maschile: per una comprensione del testo completa e libera da condizionamenti testosteronici si consiglia di guardare i video solo a fine lettura.
Continuando con gli aspetti dai quali (provare a) prescindere in fase di ascolto: Fatoumata Diawara - 29enne nata in Costa D'Avorio da genitori Maliani e trapiantata in Francia - esprime in ogni suo gesto "l'unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana": la bellezza. Una bellezza scultorea, nobile, tendente al divino, che traspare dal sorriso degli occhi o dall'inarcarsi di un sopracciglio.
Non a caso il mondo del cinema si era accorto di tanta grazia già nel 1999, e pochi anni dopo la compagnia teatrale francese Royal Deluxe aveva voluto la giovane Fatoumata tra i suoi protagonisti. Durante le pause di lavoro della compagnia, Fatoumata cantava per gioco insieme agli altri attori, e quando il regista la sentì volle farla esibire durante gli spettacoli. "Fatou" ci prese gusto, abbandonò la recitazione e iniziò a suonare nei caffè parigini, incidendo le sue canzoni in alcuni demo in cui - da autodidatta - suonava tutti gli strumenti.
"Fatou" è l'album d'esordio di questa splendida predestinata della musica, un disco che raccoglie le sue migliori incisioni e le filtra (a volte in maniera fin troppo timida, bisogna ammetterlo) con la poliedrica esperienza accumulata in pochi anni accanto ad artisti come Dee Dee Bridgewater, Damon Albarn, Afro-Cubism, Herbie Hancock e Orchestre Poly-Rhythmo (l'anno scorso nell'album "Cotonou Club"). Il tratto essenziale di "Fatou" è l'accostamento delle linee armoniche tipiche del wassoulou (regione di confine tra Mali e Guinea) e del cantato tradizionalmente femminile di questa regione (Oumou Sangarè, Kagbe Sidibe...) con gli elementi rock e pop della tradizione europea/americana (si potrebbe scrivere "occidentale", ma la geografia non è una scienza soggettiva).
Così, quelle che nascono come semplici composizioni per voce e chitarra raramente rimangono tali ("Alama", sospesa a mezzo metro da terra su armonie vocali deliziose), mentre assumono di volta in volta una forma "più o meno rock" divisa tra tradizione e modernità. Da un lato, troviamo le atmosfere di "Kanou", interamente affidate alla voce di Fatou e alle trame acustiche della sua chitarra e dello xalam (una sorta di banjo primordiale) di Ousmane Keita; i rimandi alle ormai note sonorità Maliane ("Sonkolon"); la tradizione wassouolou rivisitata in "Willie" con l'ausilio della kora di Toumani Diabatè e in "Boloko" (che tratta il tema della circoncisione femminile e recita una cosa traducibile con "Non tagliate il fiore che mi rende donna/La circoncisione femminile provoca problemi di salute/Ti prego mamma, non circoncidermi, fa troppo male") con quello dello 'ngoni di Guimba Kouyate. Dalla parte opposta ci sono i momenti in cui il rock si impadronisce delle forme musicali Maliane: "Bakonoba" introduce chitarre elettriche e percussioni incalzanti, e chiude con una serie di accorgimenti che riescono a dimostrare grande tecnica senza ostentarla; "Moussou" si snoda all'incrocio tra basso, batteria e le congas di Sola Akingbola; "Bissa" seppellisce le voci sotto una coltre di percussioni e chitarre poliritmiche. Più spesso è il punto d'incontro tra le due ispirazioni a dare ai singoli brani una identità speciale: "Sowa" è perfettamente in bilico tra la delicatezza della voce e la resa "pop" della struttura musicale, "Kèlè" flirta con le radici afrobeat come farebbe Rokia Traoré, "Makoun Oumou" mette il suono dello 'ngoni al servizio di un solenne momento corale.
E poi c'è la voce. Veramente, fateci caso: paragonata a quelle ragazzotte che infestano il "paese del bel canto" e - aggrappate al microfono neanche fossero Moana Pozzi nel 1981 - gridano fino a squarciarsi il palato, Fatou (e con lei la stessa Rokia Traoré, oppure Hindi Zahra) si muove in punta di piedi, soffia, modula il tono di voce, increspa le vocali, interpreta, gestisce i silenzi e il respiro. Insomma, canta.
Ok, adesso potete guardare i video e innamorarvi.
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