Vampire Weekend
Modern Vampires Of The City
Linsostenibile leggerezza dellessere vampiri. Ma solo nel week-end (Ouì-chen come lo pronuncerebbe Dargen DAmico). Afro-dandy e hipster nottambuli che si lasciano intervistare dalle principali riviste musicali del pianeta, mentre aspettano che Anne Rice si accorga di loro. Tornano a mordere i giovani canini americani più amati (e odiati) dellultimo lustro, a parte forse quelli di Twilight. Con il terzo album, intitolato Modern Vampires Of The City, i Vampire Weekend realizzano quella che è probabilmente la loro opera più laboriosa e meditata, in particolare sul piano della stratificazione dei suoni e delle scelte di produzione. Meno esotico e solare rispetto a Contra, più brumoso e chiaroscurale come la bellissima immagine di copertina (dietro linnegabile bellezza iconografica fa però capolino la morte: una New York soffocata dallo smog che fu la causa del decesso di centinaia di persone in un caldo e asfissiante giorno del 1966), il nuovo lavoro mantiene le coordinate stilistiche essenziali del quartetto proiettandole al contempo su uno scenario sonoro in lenta ma sensibile trasformazione. Lafro-pop ha ceduto progressivamente il passo al modello cantautorale delineato da Paul Simon negli anni 80, con una panoplia di riferimenti (e campionamenti) elettro-analogici e digitali al posto delle contaminazioni world, le chitarre, sempre più sparute, alle tastiere/synth e alle loro notevoli possibilità di orchestrazione, i suoni si sono fatti un po più chiusi e compressi, meno ariosi e spensierati, a tratti quasi cupi (è il caso, come vedremo, di Hannah Hunt e Hudson).
Come reduci dai postumi di una sbornia di sangue amaro, Koenig, Batmanglij e soci sentono vacillare la loro fede romantica nellamore, simulacro di quella religiosa e cercano di districarsi in questa sorta di crisi esistenziale usando le loro armi migliori: lironia intellettuale e un po ombelicale dei testi, il vitalismo del ritmo sempre spiazzante e fantasioso che sanno imprimere ai brani (eccellente, as usual, il contributo di Baio e, soprattutto, Tomson), la cura certosina delle melodie, a cui affidano i loro soffici e delicati lamenti, magari meno spontanee e radiose che in passato ma comunque di elevatissima qualità. Qualità, appunto, che sanno infondere sia nei brani più sfumati e regolari come lopener Obvious Bicycle, electro-pop sofisticato e un po nostalgico degli 80s, scandito da un pulsare ferroso e frammentato, intarsiato dalle doppie voci e da unelegante outro di piano, le volute leggiadre e serpentine per organo e piano elettrico di Step o il crescendo sintetico-orchestrale, quasi un personalissimo wall of sound, di Dont Lie, sia nelle incursioni uptempo di Unbelievers, nel rocknroll in versione plastificata e parodistica di Diane Young, nellaccelerazione punkeggiante di Finger Back o in quella sorta di giga battente dal retrogusto irish e country che è Worship You. E se Everlasting Arms è forse la più coerente evoluzione della poetica paulsimoniana espressa fin qui dal quartetto, lafro-reggae apparentemente gioioso di Ya Hey, col suo ritornello pitchato e caricaturale, innalza una qualche invocazione spirituale (a Jah o Yahweh, non è dato sapere) che si stempera poi nei cori chiesastici del finale. A conti fatti, però, i momenti più atipici e tormentati rispetto al loro canzoniere prendono forma nei due pezzi di cui vi anticipavamo sopra: landamento lineare ma nevrotico e sofferto di Hanna Hunt, un vecchio amore infranto e ancora dolorante, che trova la sua catarsi nel gemito brullo e disperato del cantante, nel finale e quel gioiello assoluto che è, a parere di chi scrive, il pop simil gotico ed equoreo di Hudson, break-beat e archi e cori che emergono staccandosi piano piano dallo sfondo (con uno strano sentore quasi portisheadiano), per quella che sembrerebbe unelegia allegorica per luragano Sandy che ha colpito la City nel 2012, prostrandola nel caos e nella distruzione.
Il terzo atto della trilogia vampirica si allinea per continuità e spessore alle già eccellenti prove degli album precedenti.
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