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R Recensione

7/10

Anthony Joseph

Time

Il connubio tra musica e poesia è notoriamente uno fra i più prolifici e naturali di sempre. Uno dei temi più cari e senza fine delle discussioni di critici o semplici appassionati è infatti quello su dove finisca l’arte del musicista e cominci invece quella del poeta, specie con riferimento ad artisti del calibro di Fabrizio De Andrè, Piero Ciampi, Georges Brassens, Bob Dylan, e davvero molti altri ancora. Ci sono poeti che hanno prestato le proprie rime alla musica come musicisti che hanno scritto e musicato testi di una tale e raffinata bellezza e profondità da meritare pure l’appellativo di poeti tout court. Tralasciando per ora il cantautorato nazionale in senso stretto, quello nostro come quello di ogni altro popolo capace di esprimere propri talenti, o gli artisti della penna soliti esibirsi nei c.d. “reading” accompagnati da diverse altre espressioni d’arte, soprattutto la musica, c’è, all’interno della musica di derivazione africana, diretta o indiretta, una naturale propensione a cantare, a raccontare, (a parlare de) le sofferenze, storiche o contemporanee, di un popolo che non dimentica le proprie origini, legando le stesse a sonorità spesso in apparente contrasto con il mood lirico di riferimento. Se la musica reggea ha coperto e copre tuttora gran parte di queste prerogative nel nuovo continente centro-meridionale, le derivazioni (roots)blues e soul ne hanno filtrato il messaggio plasmandolo sulle condizioni di vita economiche e sociali della popolazione nera del nordamerica del secolo scorso. Il fenomeno ha quindi poi subito (siamo grossomodo negli anni ’70) una sorta di effetto boomerang, ritornando verso i luoghi d’origine (l’Africa) o verso i luoghi dove si sperimentava di più (l’Inghilterra, soprattutto) dando vita a nuovi ed entusiasmanti movimenti, a volte ben strutturati, codificati e longevi (penso ovviamente all’afrobeat di Fela Kuti e discepoli, nella grande madre Africa) altre volte più frammentari e isolati,  sublimatisi, dal mio punto di vista, nell’opera poetica e musicale di Linton Kwesi Johnson, il re della dub poetry. La denuncia raccontata su basi musicali nere ha comunque avuto terreno più che fertile anche negli States e l’intera opera del poeta Gil Scott-Heron ne è sublime testimonianza, per l’eternità. Dei Last Poets, dell’hip pop e di tutto quello che ne conseguì, non ne parlo, anche perché non ne sono in grado, ma potete intuire dove il discorso può arrivare.

Bene, ho scomodato (mai a caso, ve ne accorgerete) alcuni tra i mostri sacri della musica di cui si nutre quotidianamente la mia anima per presentare l’ultima opera di Anthony Joseph, poeta e scrittore di successo, docente universitario di composizione creativa a Londra, nativo del Centro America ma trapiantato dal 1989 in Inghilterra, che da pochi anni presta la sua voce e le sue composizioni a produzioni musicali che lo hanno già visto uscire dal 2007 ad oggi con tre album (tutti caldamente consigliati), assieme alla Spasm Band, e che debutta invece in questi giorni da solista con questo Time.

In produzione è affiancato da Meshell Ndegeocello, tra le regine della neo soul, che fa pure delle brevi apparizioni con le sue splendide estensioni vocali in alcuni brani e che a un orecchio sensibile e memore delle precedenti produzioni di Anthony Joseph, rivela l’impronta decisiva data alla qualità del prodotto finale di quest’album.

Time”, la title track è l’ennesima lezione di storia di Africa e di colonialismo (vedere il primo video in vetrina per i dettagli) , tra il reale e il surreale, su una base sonora dal groove lento, morbido e speziato, con un ritmo semplice di congas a segnare il passo dell’oratore convinto e convincente che predica dal pulpito della memoria, ovviamente ferita. Un funk contagioso, che sembra venire dritto dritto dalle intuizioni dei Meters di Rejuvenation è l’elemento principale di “Hustle to live”. In “Tamarind”, l’altro pezzo forte, assieme a "Time", c’è il primo tentativo di sperimentazione elettronica mentre in “Michael X” l’Africa nera, rivista con evoluzioni caraibiche, esplode nella sua totale e viscerale irruenza. "Girl with a grenade" ipnotizza, nel vero senso della parola, con un talking  che si nebulizza nel riverbero e un riff in loop di corde arabeggianti che s’impadroniscono furbamente delle sinapsi.

“Kezy” è un afrobeat travolgente con atteggiamento vagamente psichedelico, “Heir (for woman who wish)” parte con una introduzione dal chiaro sapore cine-noir per poi sciogliersi in atmosfere progressive e sognanti. “Alice of the river” rappresenta l’anima più pop del disco, mentre Botanieque chiude con una elegante e raffinata chiacchierata jazz.

L’album ha dei picchi notevoli, oserei dire atipici per questi tempi, ma non è sempre a livelli alti e alla lunga può far sorgere la sensazione di una certa monotonia, visto che l’elemento fortemente caratterizzante, onnipresente e sempre uguale a se stesso, è la voce narrante di Joseph, anche se contornata da sonorità sempre diverse e variegate. Anthony Joseph non credo sia il nuovo Gil Scott-Heron, né il nuovo, mutatis mutandis, Linton Kwesi Johnson. Non ancora quantomeno, ma chi ha fretta se l’attesa la si inganna con questa musica. Musica dal profondo dell’anima, un'anima nera, intensa, da esplorare.

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