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R Recensione

7,5/10

Kabatronics

Fanfara Tirana & Transglobal Underground

Cominciamo col dire che la musica folk ha un limite, ovvero è sempre fissa nel tempo, è una rivendicazione ferrea delle radici culturali di un popolo. E, come tutte le cose immobili, lascia il tempo che trova. Il discorso cambia quando il folk diventa meticciato musicale, come in questo e in altri casi (su due piedi mi viene in mente il tango dei Gotan Project, la taranta dei Nidi D’Arac, il mambo di Señor Coconut o il folk dei Les Anarchistes). La Fanfara Tirana, collettivo albanese di fiati, incontra qui gli inglesi Transglobal Underground, per dar vita ad una miscela gustosissima di musica balcanica e dub orientale. Registrato tra Tirana, Londra, Milano, Torino, Lecce, Bari e Pristina, “Kabatronics” è un disco bellissimo che prende spunto dalla kabà dell’Albania meridionale, un’improvvisazione al clarinetto o al violino che – afferma la leggenda – l’uomo suonava davanti al letto della propria moglie morente. L’infinita tristezza della kabà è però edulcorata dall’elettronica londinese, tanto che il risultato finale di “Kabatronics” è a metà tra il jazz e il dub, il blues e il big beat.

I Transglobal Underground hanno cominciato la loro carriera nei primi anni Novanta, in un tempo di viaggi low-cost, multiculturalismo, e con l’arrivo di nuove vie di trasmissione e riproduzione, mentre in Regno Unito si stringeva una nuova fiducia tra le comunità di immigrati e la vibrante energia della scena dance del Paese, così da rendere concreto un terreno fertile per collaborazioni e combinazioni transculturali. I TGU hanno concentrato le loro prime esplorazioni sul bordo sud-orientale del Mediterraneo. Col passare del tempo si sono spinti lontano, illuminando  la musica allora meno conosciuta del cuore pulsante d'Europa. La Fanfara Tirana, d’altronde, nasce da una costola della banda militare delle Forze Armate della Repubblica d’Albania: siccome lo spirito marziale di ufficiali e soldati, in occasioni solenni, doveva esser accompagnato da performance musicali, alcuni membri credettero di poter estendere il loro talento in nuove e redditizie direzioni.

Da “Qaj Marò” a “No guns to the wedding”, passando per “Weeping willow tree”, il disco suona prettamente balcanico mentre dalla title-track a “Bring the bride in” il mood si fa molto più europeo, addirittura in “Three beauties” è fortissima l’influenza del trip hop inglese. Con “Shtojzovalle” torna l’influsso kosovaro prima che “Flowers lament” raggiunga l’apice della bellezza sonora grazie alla perfetta ristrutturazione di un brano scritto dal più famoso folksinger albanese, Muharrem Gurra (il pezzo originale è “Qan lulja për lulen”). Ancora folk contaminato in “Baklava revanche”, “Afërdita” e “Mehndi”, fino ad arrivare ad un’altra mirabile rivisitazione, “The eagle takes flight”, presa in prestito dalla tradizione azera di Alakbar Taghiyev (il pezzo originale è “Sen gelmez oldun”). Il disco si conclude col remix raggamuffin di “No guns to the wedding” firmato da DJ Nevenko e con quello elettropop di “Three beauties” siglato Dr. Das.

A dispetto della filologia folcloristica romena della Fanfare Şavale, questo progetto discografico ha il merito di contaminare il suono balcanico, albanese in particolare, con gli stilemi dell’elettronica britannica, fornendone un’originalissima chiave di lettura. E, in merito alla moda zingara, ci affidiamo all’Elio del “Complesso del primo maggio”: «La musica balcanica ci ha rotto i coglioni / è bella e tutto quanto ma alla lunga rompe i coglioni. / Certo ne avrei senz’altro tutta un’altra opinione / se fossi un balcanico, se fossi un balcone / ma siccome non sono croato né un balcone balcano / io non capisco perché tutti quanto continuano insistentemente a suonare questa musica di merda». Ben detto.

V Voti

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