Oronzo De Filippi
Meccanizzazione
Ha sollevato attorno a sé una certa qual curiosità, qualche mese fa, la rivelazione secondo cui Justin Timberlake, per il secondo capitolo del suo ultimo disco The 20/20 Experience, abbia campionato Lustful, un dimenticato ed energico psych-funk originariamente contenuto nella miscellanea Underground Mood (Flirt Records, 1972: se riuscite a trovare una copia del vinile originale, consideratevi miracolati) e ristampato, in un secondo momento, in unantologia celebrativa, Flipper Psychout (Vampisoul, 2010). Causa scatenante di tale scalpore? Il nome che i credits del brano indicano come compositore: Amedeo Minghi. Sì, esatto, lo stesso alfiere sanremese dei trottolini e dei baciamani papali, un giovane ragazzone romano che, alla ricerca del successo e della legittimazione commerciale, parallelamente si concedeva come molti altri allepoca frequenti, oscure, liberatorie scappatelle con il mondo delle library, la discreta e prediletta concubina sonora dei tre decenni a cavallo tra 60 e 80.
Riformulando il celebre andante di Frank Zappa, parlare di library music è come danzare darchitettura. Largomento richiede unapprofondita preparazione, anni ed anni di faticose ricerche darchivio, una propensione naturale a leggere fra le trame del non detto e a far combaciare i tasselli del puzzle pur in mancanza del collante (sembra di parlare della P2, ma tantè). La recente recensione di Fabio Codias su un volume di Alessandro Alessandroni fornisce le direttive essenziali: cosè la library, chi è (stato) il compositore tipo di library, dove e come si pubblicava la library. Lattrazione magnetica che questo sottobosco esercita, specialmente su chi si trova a varcarne le soglie per la prima volta (in ciò, forse, aiutato da alcune mirate riletture recenti dei Calibro 35, pensiamo a Sospesi Nel Traffico di Gianni Mazza, contenuta nel secondo Ritornano Quelli Di Calibro 35, 2010), è direttamente proporzionale alla sconfinatezza della fatale incompiuta che è il lavoro scientifico su di esso operato, le scarne informazioni reperibili qui e lì, limpossibilità di ricostruire un quadro complessivo che tenga conto, ad un tempo, di musicisti allopera, compositori dietro le quinte, tecnici, sale di registrazione, periodi di registrazione, destinazione delle musiche, distribuzione di dischi e compilation, ristampe varie ed eventuali, etichette a tal scopo specializzate (e spesso inghiottite nella voragine del tempo che passa) Un intrigo intellettuale, semiotico persino, degno del miglior Umberto Eco.
Non è un mistero che, per la sua natura anarchica ed autarchica, la library music abbia accolto nel suo seno una quantità sterminata di nomi, dalla caratura più o meno altisonante, che desiderassero sperimentare stando condizioni di libertà espressiva totale nuovi percorsi artistici (od evolvere coerentemente la propria parabola principale) senza, per questo, mettere a rischio la propria vendibilità. Ne consegue, da ciò, che per un Amedeo Minghi che registrava e pubblicava a suo nome, decine e centinaia di altri si creavano, di fatto, un avatar ante litteram, un alter ego fittizio deputato a sporcarsi gioiosamente le mani con tale materiale. Ne consegue, a complicare il tutto, la difficoltà oggettiva di stabilire persino la reale identità degli autori di tali pezzi. Scorrendo la corposa tracklist di Flipper Psychout si scorgono, ad esempio, due misteriose composizioni: Magia (un esercizio gotico per piano dodecafonico e campane tubolari) e Castello Stregato (che contrappone, ad un robusto basso Black Widow, echi di chitarre, archi stridenti e spazzole jazz). Entrambe sono ascritte a tale Oronzo De Filippi. Inutile che rovesciate come un calzino lanagrafe o spulciate negli anfratti di internet: non è mai esistito un compositore con questo nome. Chi, allora, si celava dietro il sockpuppet? Non siamo in grado, per ora, di rispondere a questa domanda, che giriamo quindi a chi avrà voglia di cimentarsi con la filologia.
Oronzo De Filippi ed il team di valenti musicisti che giravano attorno a lui non compaiono unicamente nella summenzionata crestomazia. Lo pseudonimo (azzardiamo: un monicker neutro, da passarsi di mano in mano?) ha allattivo una cospicua ed eterogenea quantità di uscite, concentrate soprattutto tra la seconda metà degli anni 60 e la prima degli anni 70. Fra tutte è Meccanizzazione a saltare subitamente allocchio, e non solo per lapprezzamento estetico di una copertina sobria, ma efficacissima. A cogliere qualche dettaglio in più, anche con i potenti e veloci mezzi della contemporaneità, si rischia di diventare pazzi. Lunico dato certo, perché confermato da tutte le fonti attendibili a nostra disposizione, è che il full length sia uscito per Leo Records (da non confondersi con la ben più nota e importante label jazz inglese), unaffiliata e satellite della milanese Edizioni Leonardi s.r.l., specializzata in library music (il sempre prezioso Discogs cita qualche altro emblematico titolo di catalogo) e da tempo oramai defunta. Aldilà dellovvio anonimato dei musicisti, si dibatte persino sulleffettivo anno di pubblicazione: un ottimo articolo pubblicato qualche anno fa sul blog ufficiale di un negozio di dischi di Seattle cita il 1969, altri retrodatano al 1967, terzi si limitano ad indicare il decennio senza entrare nei particolari (pare che la prima data sia quella giusta, e che esista addirittura un giorno preciso di uscita: il 28 aprile). La destinazione di Meccanizzazione, poi. A chi o a cosa serviva il disco? Si trattava di una colonna sonora per un documentario sulle cause ed i risultati del miracolo economico del primo dopoguerra, di semplice musica darchivio, di altro ancora? Buio assoluto, accecante, ammorbante. Il panico aumenta se si considera che le poche copie ancora esistenti del vinile originale, con ogni probabilità, non aiutano a dipanare nemmeno un singolo dubbio.
Abbiamo forse scelto un esempio estremo per illustrare la confusione che aleggia, sovrana, sulluniverso della library. Tanto lavoro, parimenti risolutivo e inefficace, rischia poi di venire comunque frustrato dalla qualità modesta di certe incisioni, esperimenti senza capo né coda o raccolta di canzonette senza pretese (il paragone metartistico con Maldoror, il maledetto film perduto di Alberto Cavallone ed oggetto del desiderio morboso dei cinefili di mezzo mondo, simpone). Tale non è, comunque, il caso di Meccanizzazione che, rimasto intatto il velo dei suoi misteri, si rivela essere un ottimo lavoro, dalla costruzione marcatamente artigianale (un vanto, peraltro, professato a ragione dallo stesso Minghi) ma dalla sartoria eccelsa, evidentissima spia di una o più menti particolarmente versate dietro il progetto. Mai per un istante, a dispetto del titolo della raccolta e di quelli dei singoli movimenti, il discorso si evolve verso lande rumoriste o, nel rovescio ideale della medaglia, verso la musique concréte. Lensemble allopera (si distinguono chitarra, basso, batteria, pianoforte, percussioni, synth) sviluppa un eccezionale interplay su calde prosodie jazzate o, per meglio dire, sullinterpretazione che del jazz stava fruttuosamente dando, in quel decennio, la bossanova latinoamericana (Termomeccanica, e ancor più Raffineria, ne sono gli estratti più lampanti). Linfatuazione per certe sonorità, bene ricordarlo, non fu certo priorità del Battisti di Anima Latina, 1974: già nella canzone italiana dei primi anni 60 erano ben percepibili i salti di tono e le melodie discendenti tipiche del genere, e un gran numero di colonne sonore degli anni successivi (il Morricone dellUccello dalle piume di cristallo, lUmiliani delle Cinque bambole per la luna dagosto, Piccioni, Alessandroni) sperimentavano largamente con le nuove strutture.
Quanto fa Oronzo De Filippi, o chi per lui, è trapiantare silenziosamente le tendenze doltreoceano e la tradizione colta allombra delle ciminiere di un paese ancora largamente agricolo, provinciale, alla vigilia della virulenta contestazione giovanile che aprirà autostrade per la creazione e la messa in pratica di nuovi modelli artistici. LItalia dipinta negli affreschi di Meccanizzazione (si pensi alle due versioni di Dinamica, improvvisazioni di cembalo su un andante pianistico in 5/4 pressoché sovrapponibile alla Take Five del quartetto di Dave Brubeck) è, invece, la culla raffinata e neoborghese che a dispetto delle speranze di molti non entrò mai compiutamente in essere. Retrospettivamente parlando, cè una connaturata malinconia nellelegante scivolare di un disco che è, di fatto, simulacro di sé stesso (il PIL del Paese smette di registrare crescite significative già allepoca della prima partecipazione socialdemocratica al monocolore DC, nel 1962), commento sonoro ad un mondo che comincia a disgregarsi nello stesso istante della sua celebrazione: lorganetto di Barberia che recita la fanfara di Chimica Industriale, le contrazioni cromatiche delle due versioni di Fabbrica (chitarre in palm mute à la Hazlewood su di un plateatico che ricorda gli spasmi psicosomatici del Chico Hamilton compositore per il Repulsion di Polański), linedito ruzzolare noir di Industria Metallurgica (come un tango hard boiled privo di conduzione melodica).
Sembrerà strano, assurdo ai più, che unuscita misconosciuta, modesta nel nome e nel minutaggio, possa rivelare implicazioni sociali così marcate. Sembrerà strano, assurdo ai più, dire che Meccanizzazione Agraria è lounge ben prima della lounge. A tutti gli scettici diremo: benvenuti oltre lo specchio della library music.
Tweet