Goat
Requiem
Lo avete letto ovunque. Ve lhanno fatto credere in ogni modo. È la notizia dellanno, dietro alle elezioni presidenziali americane. Da oggi, con ogni probabilità, Korpilombolo sarà (ancora un po) più povera: dopo quattro anni di onorata e sudata carriera, i Goat, le ultime grandi rockstar dei nostri tempi, gli eroi del trolling musicale 2.0, i grezzi baluardi ai devastanti tsunami del poptimismo, si fanno da parte. Calano le maschere. Sì, insomma: si ritirano. Loro saranno pure reticenti, ma noi mica siamo stupidi, in fondo. Troppi e troppo evidenti gli indizi offerti. Il titolo stesso del terzo full length, anzitutto (Requiem). La citazione dellincantevole Djôrôlen, brano della regina del Mali Oumou Sangaré (tratto da Oumou, 2003), posta come epigrafe al rituale hippy di Union Of Sun And Moon una danza per percussioni, acustiche e flauti fuori tonalità che ricorda e sbeffeggia a un tempo il Morricone della O.S.T. di Autostop Rosso Sangue, gli Inti Illimani e i King Gizzard & The Lizard Wizard di Paper Mâché Dream Balloon, per citare i primi che vengono in mente , così come dal Mali viene Boubacar Traoré, a cui i Goat avevano sgraffignato la struggente Diarabi (da Mariama, 1990), che apriva e chiudeva lesordio World Music. Djôrôlen e Diarabi, già apparizioni spettrali, fantasmi di Canterville le cui catene tornano a bussare anche alle porte di Ubuntu, lamorfo, anomalo flusso new age di fine tracklist: unoasi di pace sintetica, per certi versi speculare a Union Of Sun And Moon, segmentata da una gran quantità di samples vocali, che placa ogni bollore residuo. Compresi quelli, incandescenti, del pezzo precedente: intitolato, guarda un po!, Goodbye.
Forse che i ragazzacci ci hanno, per lennesima volta, preso sonoramente in giro? Mettiamola così: se a World Music spettava il compito di creare il mitologema e il precedente Commune era una fata morgana, Requiem è un triangolo di Penrose. Così concreto da essere inesistente. Lo si percorre in lungo e in largo, lo si tasta e lo si percepisce, ma si ritorna ogni volta al punto di partenza, con un pugno di mosche in mano. Dopo svariati ascolti, la circospezione aumenta: e se quanto abbiamo ascoltato nascondesse qualcosaltro? Se non fosse esattamente quello che sembra essere? Daltro canto tutto, nel disco (un doppio LP), sembra essere votato ad un principio silenzioso (e antieconomico) di abbondanza: una cornucopia di canzoni, di stili, di colori, di giravolte. Il trittico iniziale sembra vivere di vita propria, membra disiecta di una cripto-suite votata al naturismo e al woodstockismo (che, lo sappiamo, più suona becero e più manda segnali opposti): sugli idiofoni non convenzionali di I Sing In Silence gracidano le voci femminili e sfrigolano complesse tessiture afro, come dei rāga che abbiano perso la bussola, mentre Temple Rhythms incalzata da un sostenuto handclappin moltiplica allinfinito la sua elementare, mesmerizzante cellula melodica. LHendrix sotto acido che frantuma lequilibrio di Alarms è il segno che qualcosa sta già cambiando: ecco, infatti, arrivare lirresistibile Trouble In The Streets, uno sguaiato gamelan sostenuto da una spettacolare chitarra exotica e da overdubs surf in bottleneck.
I mantra acustici riemergeranno ancora, poco oltre (si pensi al singolo trainante, una Try My Robe dalleffetto spiraliforme, o al Farfisa che si divora il lounge pop di Its Not Me), alternati ad episodi elettrici di pregevole fattura (il desert rock minimalista, quasi velvettiano, di All-Seeing Eye, lincanto Tinariwen di Psychedelic Lover). Il vero punto di forza di Requiem, tuttavia, sono le lunghe jam session, selvagge scorribande di assoluta libertà espressiva che, allo stesso tempo, sanciscono la reale cesura tra Requiem e i due capitoli ad esso precedenti. Goatband fluisce con il frastuono di una piena tumultuosa: una scarica di stolido kraut-jazz, fra la Squadra Omega di Altri Occhi Ci Guardano e i Fuzz Against Junk, che sfuma su landscape apocalittici. Goatfuzz è una danza dalle espanse propaggini rāga, che coccia contro unimpenetrabile chitarra fuzz e si frantuma in centinaia di schegge variopinte. Goodbye, infine, è un tantra rnr à la Group Doueh, imperniato sullo stesso giro in accelerazione lieve ma costante per quasi otto minuti: ciò che rimane, spogliato di ogni sovrastruttura, è un terrigno pizzicato folk daltri tempi.
Lo avete letto ovunque, ma non è detto che sia vero. Non pretenderete mica che gente del genere molli il colpo così, sul più bello, dico bene?
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