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R Recensione

7/10

Indianizer

Nadir

Nell’underground tricolore che adotta senza batter ciglio la cumbia e riscopre nel riflesso internazionale, qualora se lo fosse mai dimenticato, una fascinazione radicale per suoni esotici e ritmi latini, tra esordi importanti (I Hate My Village) e riconferme di peso (C’mon Tigre, Maistah Aphrica) si inserisce anche il ritorno dei torinesi Indianizer, pronti a chiudere con “Nadir” un’ideale trilogia inaugurata da “Neon Hawaii” (2015) e proseguita con “Zenith” (2018). Li si possono descrivere in molti modi, i sei brani di “Nadir”, tanti quanti sono i generi cui viene data la stura e le lingue prese in prestito per interpretarli (in un flessibile continuum che, in “Sin Cleopatra”, si tramuta addirittura in un esperimento di cripto creolizzazione à la spanglish): miracolo di equilibrismo di un disco che sperimenta con suoni e ritmiche senza mai arretrare di un millimetro sul versante della ballabilità, di una scrittura che deborda nella jam ma occhieggia al formato canzone, di un’interpretazione strumentale espansa e circolare ma attentissima alla funzionalità melodica.

Fatta (personale) eccezione per un episodio che pare sconfinare nello stereotipo di un patchwork etno-disco-delico Nu Guinea + Goat (ma qualcosa, nell’ossatura percussionistica di “Ka Ou Fe”, continua a sfuggire ad un incasellamento univoco), il disco cresce significativamente con gli ascolti e, aspetto forse ancor più essenziale, sembra reggere alla distanza. Così il torrenziale kraut-funk dell’iniziale “New Millennium Labyrinth”, solcato da scie space e rotondi bassi dub, coesiste armonicamente con la summenzionata “Sin Cleopatra”, coloratissima exotica che traccheggia fra chitarrine afro, scale di quinta e ricorsive estasi psichedeliche (miglior brano della tracklist, a mani basse): allo stesso modo “Aya Puma”, che del desert blues fornisce una curiosa e ficcante interpretazione reggae-oriented (solo a tratti un po’ pedante), può considerarsi un proseguimento spurio della bizzosa forma pop di “Reyna Querida” (una lounge andata a male, un hard boiled senza colpevoli) e dei contagiosi frattali disco-funk di “Horoscopic (Saturn Returns)” (un’overdose ritmica che si tiene a stento sotto controllo).

Non scontentare nessuno alla lunga forse non paga, ma presumo che gli Indianizer di “Nadir” abbiano ben chiara la lezione. Dunque, almeno per il momento, bene accomodati.

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