Indianizer
Nadir
Nellunderground tricolore che adotta senza batter ciglio la cumbia e riscopre nel riflesso internazionale, qualora se lo fosse mai dimenticato, una fascinazione radicale per suoni esotici e ritmi latini, tra esordi importanti (I Hate My Village) e riconferme di peso (Cmon Tigre, Maistah Aphrica) si inserisce anche il ritorno dei torinesi Indianizer, pronti a chiudere con Nadir unideale trilogia inaugurata da Neon Hawaii (2015) e proseguita con Zenith (2018). Li si possono descrivere in molti modi, i sei brani di Nadir, tanti quanti sono i generi cui viene data la stura e le lingue prese in prestito per interpretarli (in un flessibile continuum che, in Sin Cleopatra, si tramuta addirittura in un esperimento di cripto creolizzazione à la spanglish): miracolo di equilibrismo di un disco che sperimenta con suoni e ritmiche senza mai arretrare di un millimetro sul versante della ballabilità, di una scrittura che deborda nella jam ma occhieggia al formato canzone, di uninterpretazione strumentale espansa e circolare ma attentissima alla funzionalità melodica.
Fatta (personale) eccezione per un episodio che pare sconfinare nello stereotipo di un patchwork etno-disco-delico Nu Guinea + Goat (ma qualcosa, nellossatura percussionistica di Ka Ou Fe, continua a sfuggire ad un incasellamento univoco), il disco cresce significativamente con gli ascolti e, aspetto forse ancor più essenziale, sembra reggere alla distanza. Così il torrenziale kraut-funk delliniziale New Millennium Labyrinth, solcato da scie space e rotondi bassi dub, coesiste armonicamente con la summenzionata Sin Cleopatra, coloratissima exotica che traccheggia fra chitarrine afro, scale di quinta e ricorsive estasi psichedeliche (miglior brano della tracklist, a mani basse): allo stesso modo Aya Puma, che del desert blues fornisce una curiosa e ficcante interpretazione reggae-oriented (solo a tratti un po pedante), può considerarsi un proseguimento spurio della bizzosa forma pop di Reyna Querida (una lounge andata a male, un hard boiled senza colpevoli) e dei contagiosi frattali disco-funk di Horoscopic (Saturn Returns) (unoverdose ritmica che si tiene a stento sotto controllo).
Non scontentare nessuno alla lunga forse non paga, ma presumo che gli Indianizer di Nadir abbiano ben chiara la lezione. Dunque, almeno per il momento, bene accomodati.
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