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R Recensione

8/10

Die Anarchistische Abendunterhaltung

The Shepherd's Dream

Con un nome come Die Anarchistische Abendunterhaltung (“il divertimento della sera anarchica”, citazione da “Steppenwolf” di Herman Hesse) questi belgi proprio non potevano essere tranquilli. Sardonici, semmai. Irriverenti. Coraggiosi. A tal punto da adottare la fanta-formazione ideale da jazz cameristico, con tanto di clarinetto, archi e fisarmonica, laccata però di elettronica e spericolatezza free rock. In una placida terra incasellata che si affaccia sull’Oceano, nulla è ciò che sembra e la tranquillità si sbugiarda, a passo di danza, su un filo ceruleo macchiato di nero, sempre tesissimo e rivoltolato in dozzine di modi diversi. All’indie pop da falò, ai beat con sex appeal, alle morbide curve del cantautorato al femminile si oppone una forma classica, che sfugge però da ogni recipiente anch’esso definito tale e, con sensuali sembianze, ottunde i sensi con l’impeto di chi applica, al proprio metodo, una variazione per l’appunto anarchica. In altri termini, strumentazione non elettrificata di rara potenza e libertà espressiva.

Confortava, nei DAAU, trovare una placida risoluzione finale ai piedi dei conflitti che si generavano nelle matasse sonore dei lavori precedenti. Una battaglia nichilista, tetra e aggressiva, d’eleganza sopraffina, con continui crescendo e decrescendo sbrogliati a piacere in dissolvimenti melodici sull’orlo di precipizi klezmer. Volessimo fare un esempio, la follia gitana di “No Rule” (in “We Need New Animals”, 1998), dopo un agonizzare lungo minuti e minuti, implodeva su sé stessa e si sublimava nel silenzio. Il pericolo, annidatosi (a sorpresa?), veniva sconfitto. “The Shepherd’s Dream”, invece, dodici anni dopo - e qualche disco in seguito -  fa ripiombare in una nera desolazione. Non c’è Vaso di Pandora che tenga, non c’è rifugio a cui ancorarsi: la speranza è la prima a morire. I modern times, quelli dylaniani, hanno fatto un’altra vittima. Non c’è nulla per cui consolarsi, niente da rallegrarsi, meno ancora da ridere. Lo scempio della civiltà e dei suoi valori passa anche attraverso la musica, venata di melici noir con sfumature sempre più scure e chiusure armoniche che fendono, lacerano, tagliano, nemmeno fossimo al cospetto di un disco metal. È il dark side della faccia pulita del jazz: il disastro contemplato dall’interno.

Il sogno del pastore è molto lungo. Il suo oggetto sarà forse l’Arcadia - “Visions Of Arcadia (The Final Protest)” -, le terre di confisca care al Mantovano, l’impossibilità di sfuggire ad un’atmosfera prebellica imminente rifugiandosi ad oziare sotto un faggio. Un album creato apposta per le “Bucoliche”? Lungi dal restringere così nello specifico le intenzioni del gruppo, il pensiero si rivolge, forse, ad una metafora più complessiva dell’essere umano oggi. “The Shepherd’s Dream” è un lavoro articolato, lo si sarà intuito. Così denso, indivisibile e realista da potersi esprimere alla perfezione senza alcun bisogno di parole. Cinquanta minuti in cui confluiscono la gypsy music, i Barbez, le endtime ballads dei Crippled Black Phoenix e, naturalmente, tutto ciò che i DAAU sono stati, sono e saranno. Un incubo a tinte forti, più che una visione onirica pura e semplice. Uno sfaldarsi di illusioni ed utopie che parte dallo zampettare di “A Matter Of Time”, oscurato da un flicorno che arabeggia su un tappeto strappato, mobile ed inquieto, con un effetto simile a quello ottenuto da John Zorn nel suo “Kristallnacht”, sfiatato poi da maglie di fisarmoniche crepuscolari.

Il problema che si rincorre per tutta l’opera, assodata l’intenzione di dirigerla verso determinati lidi, non è tanto quello del cosa dire, quanto di come dirlo. Bel topico. A cui, peraltro, i quindici minuti di “Out Of The Woods” danno una risposta, nell’insieme, agghiacciante. Forte è il pericolo di involarsi su traiettorie post-apocalittiche ed auto compiacenti che sono quanto di più vicino alla conferma dell’aggettivo “scontato”, ma il complesso riesce ad aggirarlo mirabilmente, intessendo una melodrammatica trama percussiva sfrangiata dagli archi e soggetta, a piena sorpresa, a sprazzi di pura sospensione melodica d’ispirazione vivaldiana (possibile, una citazione dalle Quattro Stagioni?). Basta un attimo, prima che la fisarmonica cali come una mannaia ad annegare in mille, acidi rivoli psichedelici l’incalzare suscettibile dei violini e a metamorfizzare lo scenario in una mostruosa apparizione al limite del free jazz, appena carezzata dal gemere pensoso del clarinetto.

Per chi scrive potrebbe davvero bastare qui. Eppure la grandezza di “The Shepherd’s Dream” si svela, più che mai, nel resto della scaletta. “Girl. Swimming.” smussa il suo lato più arioso e teatrale con dissonanze e stridi pregni di quel livore già serpeggiante in precedenza. Nemmeno dei Gotan Project sotto stress potrebbero inventarsi di suonare un tango anfetaminico come quello di “Into The Wild”, con improvvisi collassi e zampate in crescendo che si inerpicano nel finale, quasi dark-prog per l’effetto chiesastico della sovrapposizione strumentale. L’unica protesta possibile non poteva che essere quella orchestrale e dimessa di chi sa di non avere più nulla da perdere: “Visions Of Arcadia (The Final Protest)” cala le sue carte all’interno di un contesto jazzato, ma finalmente rassegnato e non tortuoso.

E adesso, fate voi il vostro gioco.

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Voto degli utenti: 6/10 in media su 2 voti.

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target (ha votato 7 questo disco) alle 14:19 del 5 giugno 2010 ha scritto:

Disco molto più sfaldato rispetto ai precedenti, sicché si finisce verso territori (come bene dici tu, free-jazz e dintorni) che mi sono estranei e ostici. Curioso, comunque, come da un disco che avrebbe voluto essere evasivo ed escapista - via di fuga dal presente attossicato - escano più vibrazioni negative che positive. Il solo vero idillio è quell'accenno vivaldiano (in effetti...) a metà di "Out of the woods". Il resto è contemplazione, paura e sospensione inquieta. "Into the wild" la mia preferita. Nel complesso, però, per me, prevale il dispiacere di non sentire più alcune perle klezmer/esotiche/dub del passato (una "Waltz delire", per dire, una "Dip'n dodge"). Comunque, per chi non li conoscesse: recuperatevi "We need new animals" (199, che quello è un disco mostruoso davvero.