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R Recensione

7/10

John Zorn

FilmWorks XX: Sholem Aleichem

Facciamo rapidamente due più due: lo scrittore ed umorista ebraico più famoso dell’Ottocento viene omaggiato di un documentario, successivamente musicato da uno fra i compositori e musicisti più strabilianti del secolo in corso, anch’esso ebraico. Che, come sua consuetudine da un po’ di anni a questa parte, si limita solamente a scrivere tutto il materiale, lasciandolo poi suonare ad altri, strabilianti strumentisti, di chiarissima estrazione ebraica. Quale musica potrà mai saltare fuori da questo studio di registrazione? Ma è ovvio: del sano e passionale klezmer!

Se i complimenti vanno di dovere a chi ha deciso di estrarre una pellicola dall’intensa ed articolata vita del grande Sholem Aleichem (a quando farlo studiare nelle scuole?), è altrettanto scontato che il plauso si estenda a questo ventesimo, omonimo capitolo della serie FilmWorks, colonne sonore realizzate da John Zorn e dalla sua inseparabile cricca per film underground, piccoli cortometraggi ed autobiografie d’impatto mediatico pressoché nullo. Maniacale il lavoro del sassofonista americano: non solo questo nuovo lavoro arriva a pochi mesi dal precedente, estasiante “The Rain Horse”, ma farà addirittura il paio con un’altra soundtrack di prossima uscita, anche se di lignaggio per ora ancora ignoto.

Ancora niente direttamente Zorn, dicevamo. In compenso, però, troviamo dei nomi che, da soli, basterebbero a far morire d’invidia vent’anni di musica tutta: Rob Burger alla fisarmonica, Carol Emanuel all’arpa e, come se non fosse sufficiente, nientepopodimenoche il Masada String Trio al completo. Cose turche, eppure basterebbe anche una minima conoscenza dell’ambiente jazz newyorchese – o, in alternativa, l’aver ascoltato un paio di dischi del suddetto – per poter davvero comprendere la grandezza dei nomi in azione.

Musica leggera, quindi, quella di “Sholem Aleichem”, ma allo stesso tempo multiforme ed umorale. Inevitabile porre dei confronti, in questo caso, non tanto fra lo scrittore ed il film, quanto fra la personalità di Aleichem ed il suo coronamento musicale. Fine satirico, raffinato novelliere delle tristi realtà est-europee all’inizio del XX secolo, il nato ucraino s’impose al pubblico grazie al suo, ormai celeberrimo, Tewjè, lattaio protagonista di una lunga serie libraria fra il 1894 e il 1916, personificazione delle difficoltà quotidiane sopportate da un individuo medio che, nonostante tutto, riesce a superarle grazie al gioco, allo scherzo e all’amore. Comicità sì, ma sempre pervasa da un’arteria nera, da un chiaroscuro umorale molto particolare.

Ecco dunque che questo eterno contrasto, questo strambo retrogusto dolceamaro tipico della prosa di Aleichem si rispecchia pienamente in questi dodici, nuovi, differenti temi. L’apertura è fulminante: in “Shalom, Sholem!” fisarmonica e violoncello si rincorrono e si intrecciano, sfumando malinconicamente su un tappeto di respiro assai più ampio e concentrando così, in poco più di due minuti, una quantità di immagini visive impressionante.

Eccezionale è il lavoro di Carol Emanuel: “Nekubolim”, di una profondità e di uno spessore musicale impressionanti, si eleva ulteriormente proprio grazie all’arpista statunitense, che ne arricchisce la struttura con luminose trine semplicemente bellissime all’ascolto. Lo stesso accade per “Mamme Loshen”, più crepuscolare e cadenzata, klezmer screziato di sirtaki, dove la prova di Burger può ricordare da vicino le eccellenze del fu, quindicesimo, “Invitation To A Suicide”. Poco da contestare anche in “Lucky Me, I’m An Orphan!”, dal tessuto semplice e vibrante, con un violino libero di svariare per ogni dove.

Sarebbe però ingiusto non sottolineare che, nonostante l’ineccepibile bravura degli artisti all’opera, e l’estrema validità della tecnica compositiva di Zorn, queste sono canzoni che, per un motivo o per l’altro, non riescono ad aderire così bene come già era successo con “The Rain Horse”. “Jewish Revolutionaries”, fulcro del disco, con una forte impronta del Masada String Trio, è l’ultima voce davvero importante del lotto. Ci si destreggia poi fra episodi molto buoni, anche se un po’ d’ordinanza, come “Luminous Visions”, classico andantino zorniano, ed altri invece meno freschi (l’impetuoso contrabbasso di “Shtetls”, un po’ noioso, e “Nicht Gefährlich”, irrisolta).

Aspettando, per la prossima volta, risposte altrettanto valide, ma più solide e concrete, non ci rimane che guardare il lungometraggio.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 11:55 del 18 novembre 2008 ha scritto:

Molto bello. Ho ascoltato anche Filmworks XXI, e mi piace ancora di più.

Marco_Biasio, autore, alle 16:14 del 18 novembre 2008 ha scritto:

RE:

Sono d'accordo per il giudizio sul ventunesimo capitolo, davvero molto bello (a mio parere, "The New Rijksmuseum" è fra le cose migliori mai composte dallo Zorn degli ultimi 10 anni: "Belle De Nature", la prima soundtrack (sette brani), ha anche il difetto di avere un brano praticamente identico alla title-track di "Invitation To A Suicide"). A questo punto, se tu dovessi fare una scelta, ti indirizzerei verso il capitolo 19°, "The Rain Horse", davvero eccezionale. Questo, dei tre, è il meno forte. Ovviamente poi de gustibus!