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R Recensione

6,5/10

Klezmerson

Amon: Book Of Angels, Vol. 24

Parlando, mesi addietro, dell’esuberante prestazione di Eyvind Kang e big band al seguito sullo scrigno di continui tesori di “Alastor”, avemmo modo di utilizzare una formula ben precisa, riformulabile come segue: forse non bello, ma certamente interessante. Passando a discettare di un graditissimo ritorno di casa Tzadik, quello dei pittoreschi Klezmerson, possiamo capovolgere il metro di giudizio: forse non interessante (dipende dalle prospettive), ma certamente bello. In alcuni casi un attributo non esclude l’altro ma, anzi, lo presuppone: valga per l’iniziale “Samchia”, un autentico gioiello che, in tutto il canzoniere Book Of Angels (giunto, con “Amon”, al capitolo ventiquattresimo), è stata interpretata un’altra volta soltanto, proprio da Kang. Se la versione dell’eccentrico polistrumentista coreano colorava di meditativo (Estremo) Oriente una salmodiante partitura klezmer, il flamboyant collective messicano realizza quello che sembrava anche solo impossibile immaginare: la declinazione Buena Vista Social Club dei Banquet Of The Spirits di Cyro Baptista o, in alternativa, una variopinta rumba per rabbini avventurosi. Tutto, nel pezzo, è non meno che remarkable: gli opulenti intarsi chitarristici, tra flamenco e hip hop, le caldissime percussioni, gli indigeni melismi violinistici accoppiati ad una sezione fiati da far salire la bile alle produzioni Motown degli anni ’60 e ’70.

Dunque, Klezmerson… chi erano costoro? L’idea del gruppo (sei membri ufficiali, ma il personale che suona su “Amon” si allarga fino a sedici unità!) salta in testa, nel 2003, al violista, pianista e compositore Benjamin Shwartz. Semplice ed assurdo al contempo il fine propostosi: offrire una retrospettiva musicale sulle proprie radici ebraiche che tenga conto, attivamente, dell’ambiente socioculturale in cui è quotidianamente immerso, quello delle immense ciudades e delle frizzanti periferias che le circondano. Il monicker non suonerà nuovo per chi segue, con infallibile precisione, le vicende di Tzadik: dopo le release del s/t (2005) e del successivo “Klezmerol” (2008) per la messicana 400 Lunas, il salto di qualità per la creatura di John Zorn arriva con il discreto “Siete” (2011), a conti fatti la prova generale di questo full length. Le potenzialità di Klezmerson sono, come di consueto, incredibilmente vaste e, certo, il fatto non stupisce, se si osserva la sola strumentazione in dote ai musicisti: tromba, trombone, flauto, violoncello, oud, sassofono, clarinetto, viola, piano, organo, chitarre di varie dimensioni, pezzi tipici (come la leona, un cordofono simile alla chitarra, o la jarana huasteca, la classica cinque corde messicana di piccole dimensioni), percussioni di ogni forma e dimensione. Seppur a tratti vagamente pedante, dispersivo e stereotipato (il tango terzinato di “Kabshiel” è parimenti gradevole e sopra le righe), non può non nascere un disco degno di essere ricordato.

Il pericolo maggiore (mascherare le eventuali lacune del songwriting buttandola sul folcloristico, sull’esageratamente melodico) è da subito stornato: anzi, in linea generale, i brani dall’impostazione più jazzistica – dunque strutturalmente non piani né livellati – sono quelli più godibili, a cominciare da “Zikiel” (che alterna e sovrappone, senza soluzione di continuità, Paco De Lucia a Masada), sino agli elaborati intarsi di “Abachta” (sembra di sentire un gruppo mediterranean prog in cui figurino Tim Sparks alla prima chitarra e Uri Caine al piano) o allo stornello popolare di “Iachmel” (interplay impeccabile e coda tribale). La mano scivola ancora sulla buccia di banana del luogo comune in una “Mashith” che, nata come sonatina notturna per organo, si fa felpato paso doble a crescente gradazione di indefinitezza: eppure, quando il sipario si abbassa su “Amabiel” (il free jazz che se la prende con l’etno rock, tra persistenti disturbi di fondo ed un basso gigantesco che, a tratti, si metamorfizza in clava dub), ci si accorge che il gioco valeva ampiamente la candela.

Il successivo capitolo di Book Of Angels, “Gomory” (che, noto nella demonologia anche come Gamory o Gremory, è ritenuto essere un duca a capo di ventisei legioni, capace di manifestarsi nelle vesti di una fascinosa beduina in grado di catturare l’amore delle vergini), è stato registrato dal quartetto femminile a capella Mycale (Ayelet Rose Gottlieb, la stupenda Sofia Rei Koutsovitis, Basya Schecter e Malika Zarra), già autrici, nel 2010, del tredicesimo, omonimo volume. Sarà, con ogni probabilità, una delle ultime manifestazioni del canzoniere iniziato, dieci anni fa, con lo stupendo “Astaroth” (Jamie Saft Trio). La riflessione non spaventi: è già stato annunciato un terzo – ed ultimo? – canzoniere, The Book Of Beriah, contenente novantadue nuovi brani che, sommati ai duecentocinque del primo Masada e ai trecentosedici della seconda parte, porta il totale a seicentotredici, tante canzoni quanti comandamenti gli ebrei – secondo la Torah – sono chiamati ad osservare.

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