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R Recensione

5/10

Gogol Bordello

Pura Vida Conspiracy

La magia s'è frantumata nell'ordinarietà e, per certi versi, è giusto così. Segnalare, con un disco mediocre, che la benzina è finita, che il giustificabile senso d'essere dei Gogol Bordello – circense, irriverente, sboccato, imprevedibile – si è trasformato in un ruolino di marcia compito, senza scossoni, senza trasgressioni. Nulla di nulla. La leggenda contemporanea di Eugene Hütz, l'ucraino giramondo in fuga da Černobyl, il galeotto romano abile ad assorbire l'intero frasario di bestemmie più velocemente dei minimi rudimenti di conversazione, il capobanda di una sgangherata ciurma multietnica punk per attitudine, ma intimamente etno-folk nello spirito, lo zingaro baffuto indolente e latin lover, tra romanticherie, affondi e giocoleria da Barnum si gioca la carta di un sesto disco innaturalmente levigato e smussato nel suo tendere, estremo, in ogni direzione possibile. Prendere tutto per non scontentare nessuno ha, da sempre, come unico risultato, l'inevitabile delusione generale.

Ho visto due volte i Gogol Bordello dal vivo. La prima molti anni fa, non ricordo se “Super Taranta!” dovesse ancora uscire o meno – credo di sì. La seconda nel periodo di transizione fra “Trans-Continental Hustle” e questo “Pura Vida Conspiracy”. In entrambe le occasioni, al netto dei cambi di formazione e della perdita di mordente del suono dell'orchestra, furono due concerti divertentissimi e memorabili, danzati e cantati e imprecati fino allo sfinimento. Mi colpì solo un particolare, nel passaggio ideale tra un live set e l'altro: la tendenza ad irrobustire chitarre e sezione ritmica non appena se ne presentasse l'occasione, non lesinando assalti elettrici e scariche inattese di doppia cassa – “Gypsy Punks: Underdog World Strike”, il capolavoro del 2005, aveva visto Steve Albini in cabina di regia, ma il risultato non si era spinto certo verso questa specie di crossover meticcio ed abrasivo. Fa effetto, una volta di più, sentir succedere l'innaturale klezmer distorto di “Jealous Sister” ai pizzicati acustici, sbilenchi, minimali, ondivaghi di una “We Shall Sail” beccheggiante ed americana come da titolo: segnala una mutazione avvenuta senza appello, un genoma specifico genuflesso alla furbetta e fagocitante volontà di aprire il proprio linguaggio ad un pubblico più ampio possibile.

Il che, di per sé, non è un male: si dovrà pur campare in qualche modo, e nel disordinato schema mentale di Hütz e compagnia l'arte di arrangiarsi avrà, di certo, un posto prominente. È un arrangiarsi però differente dal passato, non spontaneo, non arraffone, non approssimativo, ma estetico e posticcio, studiato e professionalmente calcolato. Il godimento di pancia risulta così superficiale da sparire quasi immediatamente. “Malandrino” è il singolo trainante più debole di sempre, sotto anche quella vecchia “Pala Tute” che, rivista, ripulita e registrata nel precedente “Trans-Continental Hustle”, aveva azzoppato da subito un platter in verità non così disprezzabile: una puerile danza balcanica in levare che cresce e decresce all'avvicinarsi e all'allontanarsi delle strofe al ritornello – viene subitamente in mente il classico kolo slavo meridionale. La chiassosa ed alcolica “It Is The Way You Name Your Ship” indica una possibile via d'uscita Dropkick Murphys, rallentata però in un rasserenante midtempo che ha tracce di ballata. Quella intera arriva comunque, e non una volta sola: “Dig Deep Enough” accelera fragorosamente a comando, ma l'enfatico mandolino che la sorregge parla da solo; “Hieroglyph” è un reggae acustico di spessore assai risibile; “Lost Innocent World” carica di fanfare autoctone uno schema blues altresì ben definito.

Tanto rumore per nulla, insomma. Il meglio arriva solamente dove l'esercizio calligrafico, con distorsioni ancora una volta insolitamente sopra la media, si ripete pedissequo: “We Rise Again” è la classica canzone pop dei Gogol Bordello, infiocchettata dal violino di Sergej Rjabcev e disturbata dall'elettrica di Michael Bernard Ward. “I Just Realized” smista il consueto melting pot linguistico in un tango dai toni discreti, strumentalmente valido. Una sferzata, prima della conclusione, arriva dal quadrato passo punk di “John The Conqueror (Truth Is Always The Same)”, ma ancora sembra troppo poco, se paragonato a quanto era in grado di produrre la penna di Hütz meno di dieci anni fa.

Una vita. Allora esisteva ancora un gruppo che si chiamava Gogol Bordello e che faceva tremare di paura, al solo passaggio, i palchi di mezza Europa. Esiste ancora quel gruppo?

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