The Clash
Sandinista!
Mio zio mi racconta che, quando ero praticamente in fasce, mi scorazzava in giro per il nord Italia e metteva nello stereo le tre musicassette di "Sandinista!".
Racconta anche che, davanti a quel groviglio di suoni e di ritmi impastati, io abbozzavo goffi tentativi di ballo, mentre sulla faccia mi si disegnava un enorme sorriso a 32 denti (da latte).
Ecco, io credo che Strummer e Jones esercitino su di me un fascino oscuro anche perché scavano dentro la mia memoria e il mio subconoscio, scovando frammenti di un'infanzia oramai lontana e felice.
Per questi motivi, non saprei mai parlare male di un disco che ha segnato così profondamente il mio rapporto con la musica.
Ciò premesso, cerco di essere il più obiettivo possibile, provando per una volta a separare l'uomo dal critico (impresa per me decisamente ardua).
"Sandinista!" è un gigantesco, estenuante fiasco, il capolavoro epocale abortito di un un gruppo di reduci dal punk. Ma è anche il disco più coraggioso e complesso della loro carriera, un'enorme brulicare di idee, spunti, invenzioni.
Se "London Calling" ha decodificato il concetto di genere, "Sandinista!" l'ha definitivamente messo a prendere polvere, mostrando al mondo una band matura, eclettica, radicale.
Perché quindi, alla fine, questo è capolavoro epocale sfiorato? La durata. Non esiste gruppo rock che possa sostenere 145 minuti di musica per 36 brani che spaziano dallo shuffle al dub più atmosferico senza degenerare.
Per la verità, i Clash avevano già fatto passi da giganti in direzione musica totale con "London Calling", destinato a regnare incontrastato come capolavoro della loro carriera e come gemma assoluta della new-wave britannica più accessibile.
"London Calling" è un capolavoro fatto e finito perché, a dispetto dei temi musicalmente semplici, spesso elementari, è sorretto da un'ispirazione senza pari, è spinto da una convinzione arcigna. E trasmette una determinazione cieca, spiattellandoti nel salotto di casa 19 brani caricati da un pathos quasi fisico, verniciati da un'aura magica irripetibile, che li rende insospettabilmente coesi.
"Sandinista!" va oltre, ma rappresenta anche una piccola involuzione. E il motivo, come detto, è la sua tendenza alla dispersione: "Sandinista!" è ovunque, è troppo vasto e quindi rischia di perdersi in un marasma di idee, invettive e analisi mai visto in un disco di musica rock.
Ciononostante, quando azzecca il pezzo e l'atmosfera, il triplo che battezza gli anni '80 (venduto peraltro al prezzo di un doppio) non ha nulla, ma proprio nulla da invidiare a "London Calling", del quale anzi rappresenta l'evoluzione in termini di produzione.
E i pezzi azzeccati, manco a farlo apposta, sono una marea, la larga maggioranza. Sono così tanti che offrono a Strummer & C. l'occasione per srotolarci sotto gli occhi un'infinità di problematiche personali e sociali, consacrandone lo status di band impegnata per eccellenza del post-punk.
Si passa infatti dal sistema gerarchico inglese, su cui Jones spara sempre con un certo compiacimento, alla guerra in Vietnam; dagli ovvi guerriglieri sandinisti alle barricate londinesi di fine anni '70 , dalle discriminazioni del Sudafrica fino alla guerra fredda; dalla ventata di gioia che ancora deve sostenere la gioventù, concetto quasi metafisico cui i Clash aggrappano le loro speranze, alla fede nel potere incantatorio e motivazionale della musica.
Oltre a tutto quanto sopra, il disco è anche e soprattutto un corso accelerato di produzione, un viaggio alla scoperta delle novità partorite da produttori come King Tubby e dai più rivoluzionari esegeti della musica giamaicana.
Le escursioni nel dub e nel reggae in effetti sono la colonna portante del triplo: basti un ascolto al basso gommoso di "Junco Partner", fra i reggae più entusiasmanti della loro carriera, peraltro la cover di un classico r'n'b da New Orleans; oppure si dedichi qualche minuto allo strimpellio vivido e vibrante di "One More Dub", a "Kingston Advice", a "Living in Flame" (forse uscita da qualche party fumato di casa Marley), o ancora a "The Equaliser" (con tanto di violini immersi fra effetti produttivi smaccatamente dub come riverbero ed eco sinistra).
Oppure, si pensi al reggae-shuffle del capolavoro "Charlie don't Surf", il pezzo melodicamente più spettacolare dell'opera, sentita arringa contro il fanatismo marine che demonizza Charlie (secondo Apocalypse Now, il vietnamita), brano di ampio respiro e dalle ambizioni quasi filosofiche.
I passaggi cruciali però si scovano anche di fuori del perimetro Giamaica: "Hitsville UK" è un pop istrionico dalle sfumature zappiane, con tanto di coretto di voci femminili; "Something About England" è pop orchestrale sulla falsariga di "The Card Cheat" da "London Calling", con i fiati che spingono e una melodia cristallina che ruota senza intoppi (mentre un vecchio barbone riscrive la storia della Gran Bretagna sin dai tempi della Grande Guerra); "Rebel Waltz" è un piccolo saggio di sinistra musica ballabile fedele al titolo nella costruzione ritmica, mentre "Somebody Got Murdered" è un assalto frontale di pop-rock (così come la frizzante "Police On My Back", cover di un vecchio brano dedicato all'apartheid sudafricano), che scolpisce un'invenzione melodica felicissima.
"Corner Soul" è funk-rock epico e cantabile che - benché velato da un'atmosfera impaurita in stile roots-reggae - potrebbe stare anche su "London Calling", mentre lo splendido strumentale "If Music Could Talk" è reggae-soul jazzato (le eccellenti evoluzioni del sassofono tenore) da brividi, che potrebbe durare mezz'ora senza annoiare mai, anche perché alla voce si danno battaglia i due leader Jones e Strummer ed è sempre un bel sentire. "Washington Bullets" è una filastrocca dalle sfumature caraibiche che mette alla berlina l'imperialismo americano in Sudamerica e la sua propaganda (che definisce sandinista chiunque azzardi esprimere dissenso), così come ogni forma di dominio illegale e violenta, anche di marca sovietica.
Altrettanto soft nelle sonorità e impegnata nei contenuti è la disco-music funkeggiate di "Ivan Meets I.G. Joe", parodia di un immaginario incontro sulla pista da ballo fra un militare americano e uno sovietico, mentre "The Sound of Sinners" è rock'n'roll a rotta di collo che prende le distanze da ogni forma di religiosità.
Per evitare che la recensione diventi una track-list, mi fermo qui, ma lasciatemi citare quantomeno la bizzarra versione per bambini di "Career Opportunities", che sul disco di debutto era un punk melodico ma inferocito, e che qui invece diventa pop quasi gentile, e la splendida intro di "The Magnificient Seven", pop-rock energico in puro stile Strummer.
Alla fine, si resta frastornati davanti a una simile prova di forza: forse non tutto è perfetto, ma questi sono i dischi per cui amare la musica.
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