Beirut
Gulag Orkestar
Dietro questo disco c'è una storia. E' una storia composta da viaggi improvvisi, incontri cosmopoliti, orchestre paesane, musiche popolari, bottiglie vuote lasciate sui davanzali estivi e gioventù spensierate. Una storia tra due continenti, tra il vecchio e il nuovo, tra il mercato occidentale-americano e la tradizione orientale-mediterranea. Stiamo parlando di Zach Condon, leader e anima dei Beirut, enfant prodige dell'86 che a soli vent'anni, attraversando l'Atlantico, partorisce un disco pieno di spunti e atmosfere interessanti. Ma procediamo con ordine.
Originario di Santa Fe, New Mexico, Zach lascia gli studi a sedici anni per dedicarsi ad una sorta di viaggio sabbatico in Europa. Lasciantosi alle spalle gli scenari da palma della casa natale, fa il suo primo incontro con la musica balcanica, vera folgorazione artistica che segna la genesi di questo lavoro. Il giovane ha già studiato la tromba francese e l'ukulele (corde poi abbandonate per una disfunzione al polso) ed è piuttosto portato per ritmi e melodie squisitamente folk-europee. Appassionato di lingua portoghese, affascinato dallo stile francese e ammaliato dalle danze popolari balcaniche abbraccia profondamente le principali culture mediterranee per tentare un sapiente intreccio tra i punti comuni delle differenti trame musicali. Passate le vacanze, impaziente e febbricitante, torna in patria tra spartiti svolazzanti alla mano e ricordi di concerti di strada tra orchestre e chansonnier stranieri. Si chiude in casa e inizia a comporre e registrare gran parte del disco che abbiamo davanti.
Fondamentale per Zach è l'incontro con il “padrino” Jeremy Barnes (già Neutral Milk Hotel e A Hawk and a Hawksaw) che, colpito dalla geniale inventiva del ragazzo, decide di produrlo e affiancarlo tra registrazioni e performances. L'album finirà la sua gestazione presso gli studi degli Arcade Fire in Quebec, Canada. Ma per questo non perderà la sua matrice mediterranea.
La visione da world-music ci accoglie già nell'intro di “Gulag Orkestar”, distante e gravosa nenia malinconica con cui respiriamo gli odori del mediterraneo misti a sudori atlantici. Tale modello è molto presente nell'intero album e anche in canzoni quali “Prenzlaurberg” si replica un vago spleen europeo che sfiora atmosfere da soundtrack filmiche. Oltre alla presenza di fisarmoniche e tamburelli si sentono anche mandolini frizzanti e salati che accompagnano l'incedere paesano di voci e tromboni in “Brandenburg”. Le canzoni che invece sviluppano una melodia più organica (“Postcards from Italy”, “Rhineland (Heartland)”) ci abbandonano sotto un sole primaverile, forse su una spiaggia stanca, con in lontananza suoni di antiche bande patronali locali. Il tono generale di tale narrazione sonora è spesso vellutato e sommesso, ma in “Mount Woclai (Idle Days)” Zach ci dimostra tutto il suo valore lirico ed emotivo lasciandosi andare al canto più libero e spontaneo, spesso corale ed accompagnato da percussioni dalle pelli molto tese.
Ma il giovane ventenne non è appassionato solo di etno-folk salmastro alla Devotchka. Il retaggio del suo sideproject synth-pop Realpeople, già espresso nell'album "The Joy of Losing Weight", gli (ci) fa esplorare volentieri anche sonorità più elettroniche come ci dimostra in “Scenic World” e “After the Curtain”, ballate che sposano melodie sintetiche e giocose con violini e pianole romantiche. Se in (a) “Bratislava” esce fuori tutto il tono verace da imponente festa patronale, come sfide di balli violenti, in “The Bunker” invece la melodia vocale di Zach si apre a un tono più pop - quasi istrionico - in cui si subodorano i germogli di discorsi francesi à la Yann Tiersen che esploderanno nei successivi album. La seconda parte del lavoro forse soffre un po' di una ripetitiva e chiassosa stanchezza ben espressa nelle disillusioni di “The Canals Of Our City”, rallentato commiato da una sosta tra innumerevoli viaggi.
Lavoro mercuriale questo "Gulag Orkestar" che, come tutti i viaggi vagabondi, è un po' incostante: a volte poco coerente, a volte troppo. Tende sì a risentire del suo nome: orchestre, rastrellate tra i vicoli di chissà quale sogno paneuropeo, che a tratti sembrano un po' forzate in un campo di lavoro troppo ibrido per loro o solamente troppo ricco di diverse fascinazioni etniche. Rimane ugualmente un'interessantissima prova d'esordio in cui spicca il fermento della maturità espressiva (sicuramente ancora in divenire) di questo giovane artista d'oltreoceano che ha tutte le capacità di continuare a raccontarci le storie dimenticate del nostro Vecchio e stanco Continente.
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