Group Doueh & Cheveu
Dakhla Sahara Session
Anche se me lo avessero detto, non lavrei mai creduto possibile. Avete presente leducato spaesamento allo scoprire che David Lynch si era ufficialmente dato alla musica? Molto, molto di più. Quale dovrebbe essere il punto di contatto fra tre scazzatissimi post-punkers dOltralpe e la tribù allargata di Salmou Baamar, una carovana itinerante che da un protettorato spagnolo si è diffuso a macchia dolio per tutta lEuropa? Nemmeno il tenue filo del recente passato storico anche lo strapotere francese si è dovuto arrendere al Sahara occidentale. Dunque: perché mai gente del genere dovrebbe mettersi a fare comunella e, addirittura!, sentire lesigenza di fare un intero disco assieme? Forse che i confini abbattuti dalla crescita mediatica di Bombino sono stati ben maggiori e ben più numerosi di quelli supposti (non ditelo a The Real Donald, però )? Oppure che, in epoca di pieno revival culturale neocolonialista (il peggiore), tutto fa brodo para buscar la voluntad del melting pot?
Da buoni amici, facciamo un bellaccordo. Invece di scervellarvi a formulare dietrologie che non portano da nessuna parte, ritagliatevi una quarantina di minuti di libertà: basteranno perché il policromo ordito di cui è intessuto Dakhla Sahara Session pervada ogni vostra fibra. Basteranno anche per farvi capire che, in fondo, laccoppiata è assai meno casuale di quello che sembra: per quanto lapalissianamente distinti siano i formalismi esteriori, alla base dello stile di entrambe le band sottostanno svariati elementi comuni. Il primo: lo spasmodico amore per la ripetizione. Se la famiglia Doueh non si sognasse di intervenire massicciamente (prima i cori, poi i synth di El Waer, infine la chitarra fuzz di Salmou), lancheggiare robotico di Bord De Mer rifuggirebbe ogni variazione e si autoriprodurrebbe indisturbato, allinfinito: allo stesso modo, Charâa è un mantra spiraliforme vicino a certe manifestazioni della musica popolare subsahariana, attecchito su grovigli psichedelici di chitarra e organetto che, quasi per incanto, si disfanno e si ricompongono attorno allincanto di un flauto spuntato fuori dal nulla. Le mille, una notte e una sorpresa a ogni piè sospinto: i velenosi wah di Hamadi hanno il sapore di unouttake di Gil Scott-Heron a colloquio con le eminenze garage del suo tempo.
Questannotazione ci porta dritta al secondo punto: prima di ogni incontro-scontro, di ogni sperimentalismo, Dakhla Sahara Session è un disco rock. Puro. Sanguigno. Genuino. Nei jukebox di mezzo mondo suonano i Queens Of The Stone Age? Noi spariamo a tutto volume Azaouane, una rasoiata etno-hendrixiana foderata di contrappunti chitarristici funk e spalleggiata da una sfrontatissima drum machine. La gente ha riscoperto la musica microtonale con i King Gizzard & The Lizard Wizard? Tout Droit potrebbe fornire qualche ulteriore ragguaglio in merito, senza ulteriore mediazione occidentale. È passata lestate più cocente degli ultimi duecento anni e siete pure rimasti a corto di tormentoni? In Moto Deux Places collidono le litanie del Group Doueh e i recital sprezzanti di David Lemoine dei Cheveu, per unindefinibile fanfara berbera che sembra uscita dal songbook di James Chance (ve lo diciamo noi per primi: il risultato è geniale).
Leggete irriverenza in quanto descritto? Ottimo intuito: è precisamente il terzo concetto in comune. Roba che lesicasmo vocale di AchHad Lak Ya Khay diventa un jingle pubblicitario striato di synth alieni e il call&response con tidinit di Skit 1 si alterna alla danza epico-lirica di Je Penche (come i Tinariwen più contemplativi remixati dai DAF). Tutto questo è impensabile, e difatti non occorre pensarlo: ce lavete proprio di fronte.
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