Luciano Cilio
Dialoghi Del Presente
"In queste registrazioni si può chiaramente percepire una necessità che raramente si trova nella musica: un momento nel quale si può veramente sentire un artista in reale contatto con se stesso. Luciano Cilio coglie quell'attimo sospeso nel tempo, come un autentico testamento emotivo, qualcosa da tenere a cuore" [Jim O'Rourke]
"Conoscenza"... una bella parola, una delle poche che ci rimangono. L'ho sempre accostata mentalmente a un albero, un grande albero, un albero dalle radici possenti; rugoso, antico, legnoso. Luciano Cilio – solo pochi fortunati di voi lo conosceranno – è all'occasione il nostro salice piangente... il tronco imponente, i rami penduli e sottili, la vita breve: grandissimo avanguardista napoletano, chitarrista e superbo compositore, morto suicida all'età di soli trentatrè anni, ancora oggi, purtroppo, pochissimi lo ricordano in Italia. Amico del primo Alan Sorrenti, quello progressista con il quale collaborò in "Aria", uno dei pochi geni della musica italiana a vedere oltre le siepi dei propri tempi (la Napoli di fine anni '70), e anti-accademico per eccellenza – lui stesso giudicò le finte avanguardie di quegli anni come "retorica delle fabbriche occupate" – Cilio rimane un pioniere incompreso, mai omaggiato in un festival, in una rassegna musicale d'annata, dimenticato presto anche dalla sua stessa città. A malapena abbiamo una ristampa rimasterizzata, con qualche suo brano inedito, di questi "Dialoghi Del Presente" ("Dell'Universo Assente", 2004). Ecco, dovete immaginarvi un uomo solo, snobbato in quanto autodidatta e perché troppo lontano dai canoni tradizionalisti della musica colta.
La solitudine come chiave di quello scrigno intimissimo, per molti versi esoterico, che rappresenta quest'album: una conoscenza, quella descritta nei cinque movimenti dell'opera, che diventa musica incosciente, attraversa pensieri e stati animo nella loro forma più indifesa, quella del sonno, e ne custodisce un'eredità purissima. Quindi sì, c'è tanto del Wyatt di "Rock Bottom": il "Primo Quadro Della Conoscenza" è la sintesi perfetta, nell'andamento lento, quasi acquoso, di una prima parte tessuta tra i riverberi gravi del violino e i richiami lievi del pianoforte s'una base ipnotica di giri circolari per chitarra acustica, poi sciolta in un bellissimo solo finale in accelerazione; e a coronare il tutto, uno strato mistico fatto di cori in sovrapposizione, nenie struggenti e ululati magnetici. E' da qui, e per tutto l'album, che si disvela la carica spirituale della world music di Cilio, una babele di suoni e strumenti musicali che mette a fuoco e per certi versi anticipa la new-age sciamanica, a spasso tra oriente e occidente, di Peter Gabriel ("Passion", 1989); un'ambient a sottrazione, costellata di mille passaggi e dinamicissima eppure alla prova d'ascolto incredibilmente evanescente (il pianista Girolamo de Simone, suo allievo, parlerà infatti di "disgregazione e vaporizzazione delle armonie"); tutto sembra come sospeso in mongolfiera, ascende al cielo sospinto dalle corde, dalle percussioni e dai fiati, fino a creare un immaginario punto di contatto tra un certo classicismo à la Stravinsky – quasi un risveglio di natura (e primavera) per flauti, ottavini e clarinetti nel "Secondo Quadro" – e spezzettati frammenti tribali per bonghi e tamburi, in particolare in un "Quarto Quadro dell'Universo Assente" imbevuto d'improvvisazione. Dopotutto erano gli anni della Mahavishnu Orchestra, e se l'happening d'impostazione libera di Cilio (modale, tematica, armonica, fate voi) non era influenza della fusion, poteva comunque attingere qualcosa dal jazz-folk di Tim Buckley, ad esempio, o dal rock sperimentale degli Area o ancora dai concittadini del Balletto di Bronzo). E come non sentire il profumo dei "Forbidden Colours" che verranno di David Sylvian e Ryuichi Sakamoto nella delicata e breve sessione pianistica del "Terzo Quadro"...
Insomma, tanti serbatoi musicali da cornice a una Napoli esterofila, che non è però completamente quella di Cilio. Altra materia ancora è la sua musica, qualcosa di veramente diverso e innovativo per i tempi – passati, presenti e futuri –, vaga senza meta ma esplora tutte le regioni dell'anima, è tecnicamente impeccabile ma mai fredda, e anzi, leggera e sognante come poche altre. Prendiamo un attimo "Interludio", commovente capolavoro di questi "Dialoghi Del Presente": ha un andamento tutto suo, a volte sembra s'incastri in qualche rintocco basso, poi riparte flessuoso con gli arpeggi di chitarra (chi ha detto fingerpicking?), sembra cedere al gusto dolce del silenzio quando invece riprende i versi sofferti del clarinetto, il tutto dietro una patina dorata nella qualità dei suoni, antichissima e sacra. Come un salice piangente.
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