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R Recensione

7,5/10

Orchestra Bailam

Taverne, Café Aman e Tekés

Fin dalla sua nascita l’Orchestra Bailam ci ha abituato a volare nel tempo e nello spazio, assistendo alla creazione di un particolare arazzo fatto di fili di storia, culture e musiche dedicato a rappresentare l’importanza ed il valore degli scambi e delle collaborazioni fra popoli diversi. In “Taverne, Cafè Aman e Tekes” il profilo filologico dell’ennesimo viaggio nel medioriente raggiunge i più alti e raffinati vertici nella lunga storia (26 anni compiuti) dell’ensemble con sede a Genova, e si colloca all’interno di una narrazione che svolge la trama dei secoli in parallelo con lo scorrere degli undici brani. Siamo fra la fine ‘800 e gli inizi del ‘900 al centro dell’Impero Ottomano, dove convivono arti, cultura e religioni di diverse etnie in un crogiuolo dominato dall’illuminata gestione del Sultano:sono ammessi ed incoraggiati studi raffinati ed intrattenimenti popolari, e la musica può essere colta, sacra, oppure svilupparsi fra i tavoli di una taverna ed i fumi del narghilè. “Nikriz pesrev”, (Alla corte del Sultano) è il cadenzato strumentale carico di corde, fiati e percussioni che introduce ed ambienta una narrazione fatta di inviti zingari al ballo (“Opa nina nai”), un salto a “Sto Cafè Aman” in compagnia di una cantante e ballerina spregiudicata, ed un banchetto ad alta gradazione a Smirne con il rito propiziatorio delle anfore rotte (“Iaroubi”). Immersi nella vertigine dei ritmi e dalle melodie avvolgenti quasi trascuriamo di sottolineare che i testi sono in gran parte cantati in italiano, ennesima innovazione introdotta dal Bailam al proprio repertorio, già contaminato nel precedente “Galata” con i canti polifonici del trallalero genovese, ed ora arricchito da un prezioso lavoro di traduzione ed adattamento della lingua contemporanea a metriche e tecniche vocali mediorientali, che vede protagonisti i cantanti Alessandra Ravizza e Matteo Merli. “Hija mia”, una composizione ebrea sefardita che rappresenta l’apporto alla cultura ottomana del popolo esule dalla Spagna, è uno degli esempi più riusciti di questa singolare contaminazione fra antico e moderno, oriente ed occidente.

La seconda parte del lavoro è caratterizzata dai toni più drammatici ed intensi che segnano il periodo di crisi dell’Impero e la rinascita delle istanze nazionaliste. “Hayastan” un brano strumentale armeno che abbina una sezione lenta ed intensa ad un finale fortemente ritmico con echi irish del violino, introduce le scure nubi che incombono sull’Impero per esplodere in “San Tis Smirnis” (Brucia Smirne),  ritratto della guerra greco/turca del 1922, con la messa a fuoco della città greca ed il conseguente esodo di massa. Dalla crisi e nell’isolamento nascono nuove culture antagoniste, si sviluppano centri di aggregazione presso le fumerie denominate “Teke” e si afferma il rebetiko celebrato anche da Vinicio Capossela e rappresentato qui dallo stordimento alcolico e da hashish di “To proi me ti dhsrosula” (Mattino di rugiada), mentre le migrazioni ed il mescolarsi delle etnie provocano  nuove contaminazioni come quelle fra la musica egiziana ed il tango argentino di “Ya habibi Taala” cantata in lingua originale. Il finale “Psaropoula”, (In riva al mar) è dedicato proprio alla partenza, c’è una barca che sta per salpare e, a bordo, un coro festoso che inneggia ad una vita migliore. Raccontano questa storia antica, ma per molti versi contemporanea, e forse universale, le chitarre e la voce dell’artefice dell’Orchestra Franco Minelli, i fiati di Edmondo Romano, le percussioni di Luciano Ventriglia, il violino di Roberto Piga ed il contrabbasso di Tommaso Rolando, con Julyo Fortunato all’accordeon e Matteo Rebora a darbuka ed altri strumenti. E seguire questa “lezione” diverte, arricchisce e, magari, fa anche danzare.  

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