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R Recensione

6,5/10

Squarcicatrici

Zen Crust

Due idee mentali fra loro contrapposte – di riflesso, due rappresentazioni fenomeniche – incarnano e rappresentano al meglio la profonda dualità di “Zen Crust”, terzo capitolo lungo dell’epopea Squarcicatrici. Lo si gira e rigira tra le mani, lo si scompone silenziosamente, lo si affronta da più angolature, il disco, mai riuscendo compiutamente a trarre conclusioni definitive: quasi come se il tempo, anziché pilastro e sostegno, fosse nemico, peggio, ostacolo. Permane il dilemma: sapeva, il coraggioso ensemble guidato dal polistrumentista Jacopo Andreini, di generare un conflitto di rispettabili dimensioni tra la soggettività dell’appassionato e la neutra (orrore) oggettività dell’ascoltatore? Proprio a questo sembra portare l’imponente zibaldone che segue di cinque anni il secondo “Squarcicatrici”: un crocevia di linguaggi popolari, una tavola calda di umori tradizionali (o di umori e tradizioni?), filologicamente smembrati e ricomposti con precisione da accademia, con voracità esplorativa, con la smisurata curiosità del ricercatore e la sottile ironia dello scienziato.

Il pedigree dei musicisti sembra tagliato su misura per la soddisfazione del vorace consumatore 2.0, creatura cronenberghiana nel cui dna globalizzazione e tecnologia sono ormai una cosa sola. Per cui non servirà volare a Gimma, o stringere la mano a Mulatu Astatke, per familiarizzare con la lambiccata, scoppiettante head di “Bilaa Jawaaz Safar” (suonata da una big band il cui suono detona e tracima nella chincaglieria noise). Sarà superfluo concedersi al rebetiko dei briganti e dei fumatori d’oppio, ad un Giannakis Ioannidis del Nuovo Millennio che si spertica in ingiurie ed arringhe per la gioia, del tutto cinematografica, di un pugno di sbandati innamorati del free jazz e degli intervalli di quinta (“Apopse Pethainei O Fasismos”). Stornelli noir e stomp per acciottolate stradine di campagna? Ci pensa la pasoliniana “Miseria Violenta” e il suo rintuzzare metallico, asimmetrico, così simile all’andamento dei versi liberi di un Kavafis del Meridione, o alla prosa del Marco Cappelli di turno. Palpita singhiozzante “Fremente”, il sole dell’isola di Luca Lo Bianco a contatto con la ricerca world di Maurizio Camardi. Il Ribot di Electric Masada è tutto qui, e sfoga il suo elettrico eclettismo nel postmodernismo strutturale (El Topo?) di “Affrico”. La fusion contratta, fritta in una micidiale miscela di oli elettronici, di “Saffo’s Wedding Party”, cita quel Scofield che nel sanguigno solipsismo per sax di “Cultivar Subversivos” non troverebbe posto. Jazzcore e scudisciate in pieno volto tra “Bromio” e “Blaccahénze” (“A1”) bilanciano, da un lato, la completa armonizzazione ritmica di “Fi Tunis” (fiati e chitarre intervengono solo alla fine, quasi a dare il via ad un pezzo che, in realtà, finisce subito) e, dall’altro, lo struggente ed incalzante andante balkan di “New World Border” (come un Kusturica vestito a lutto, un Bregović finalmente libero dall’autoparodia, un traditional serbo reinciso da La Piramide Di Sangue per Tzadik).

Volendo, poi, si può rivoltare “Zen Crust” come un calzino, prescindendo dalla forma e tranciando di netto la ragnatela compilativa delle influenze: cresce allora esponenzialmente, l’ammirazione, per un disco che fa della varietà semiotica il suo maggior pregio, ma fallisce comunque nel garantire coerenza all’insieme, in questo non aiutato da una parte centrale francamente debole (“Jardim Da Estrela” assomiglia al fado mai messo in scena dai São Paulo Underground, “Jours D’Amandes” è un timido accenno di chanson stuprato da inutili chitarre pesanti). Poteva essere il disco italiano del 2014: così, invece, è “solo” un’eterogenea antologia di brani in sé eccezionali, ma scarsamente comunicanti l’uno con l’altro.

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