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R Recensione

6,5/10

Universal Sex Arena

Abdita

Per quanto lo stereotipo della rockstar animale da palcoscenico mi sia parecchio distante, devo ammettere che gli Universal Sex Arena, dal vivo, sono un gran bel sentire. Non arriverò a definirli i Monotonix italiani, ma qualcosa degli istrionismi di Ami Shalev scorre sicuramente nelle vene del cantante Nicola Stefanato, alias Voiture Tempo: lo vedi salire sui banconi, immergersi tra il pubblico, portarsi a spasso il microfono, gigioneggiare tra i preparatissimi strumentisti, saltare e danzare a ritmo di musica, instancabile, la silhouette magra ed allampanata, come un incrocio impossibile tra l’Iguana e il Dennis Lyxzén dei tempi d’oro, mentre tutt’attorno infuria un inarrestabile e travolgente baccanale garage-funk. Gioia per gli occhi, per le orecchie, per i piedi e per il culo. Peccato, cento volte peccato che questo luccicante biglietto da visita venga da sempre appannato da una produzione studio discontinua e frammentaria, non al livello delle esibizioni live e solo parzialmente rappresentativa dell’essenza del sestetto veneto. Seppur indubbiamente migliore rispetto ai precedenti capitoli, anche il terzo “Abdita” non sfugge alla generalizzazione al ribasso.

Abdĭtus, participio aggettivale del predicato composto abdō, in latino aveva il significato di “nascosto”, “remoto”, “rimosso” e, per estensione, “segreto”, “intimo” (tutte accezioni composizionalmente ricavabili dalla giustapposizione del preverbo elativo ab con ‘dare’). L’Unheimliche degli Universal Sex Arena, stanti tutte le sue connotazioni magico-rituali, è un generico Meridione idealizzato come culla primigenia e Urheimat tribale, uno stato mentale ancor prima che geografico dove, appunto, ogni cosa – pur essendo illuminata – è nascosta allo sguardo. Questo complesso ed affascinante concept, significativamente lontano dall’ipercinetico mood urbano del precedente “Romancitysm”, viene principalmente suggerito dall’estensione indefinita del parco percussioni (mai così rilevante e significativo) e dall’adozione di estrose timbriche chitarristiche, un pregevole sunto del neo-tropicalismo in salsa tricolore. È grazie a questa duplice innovazione che la band firma, in apertura, tre dei suoi migliori brani di sempre. Particolarmente riuscito è il kick off, con l’elaborato riff mariachi del trascinante ragga-soul di “Secret People” accentato in maniera leggermente sbilenca: le geometrie al millimetro delle sezioni ritmica e chitarristica danzano poi il tango nella romanza spagnoleggiante di “The Time Parlour”, virando infine, in “Horizon Of Barking Dogs”, su di un intontito e dissonante mantra no(ise)-wave vagamente Liars (è uno dei tre pezzi in cui la batteria di Edoardo Pellizzari viene raddoppiata da quella di Luca Ferrari dei Verdena).

Una tripletta del genere autorizzerebbe l’uso a prescindere di superlativi, ma è proprio da qui in avanti che “Abdita” comincia a presentare le prime scollature: crepe sottili e tuttavia pervasive, causate principalmente dalla difficoltà di coniugare l’eterogeneità della proposta con l’effettivo grado di coinvolgimento suscitato nell’ascoltatore. Gli Universal Sex Arena, rispetto al recente passato, tornano a scrivere canzoni vere e proprie, ma l’orientamento stilistico, a tratti, oscilla ancora distintamente. L’eclettismo diviene confusione nella possente drum’n’bass di “One-Three”, un lamentoso soul retrofuturistico con sovrastrutture à la Aucan, che avanza compatta ma insoluta: così anche gli interessanti vuoti industriali di “Alongshore The River” si trovano ad essere fuori contesto, mentre del tutto dispensabile è il roots-garage gitano di “In Palermo You Can’t Have Me” (i Gogol Bordello formato Black Lips?). La cifra rock viene poi riaggiustata con autorità nella granitica “Like Home” (bello e riuscito l’intervento di Elli De Mon al sitar) e riaffermata con enfasi nella doppietta finale, le scoppiettanti venature latin di “Aetna” e l’indemoniato flamenco di “Momentum” (inconfondibile il tocco solista di Alberto Piccolo de Glincolti): eppure qualcosa sembra sempre non tornare, la quadratura mancare per questione di centimetri – quelli assenti nella bizzarra cubatura urban-forro di “Meridiem”? –, il discorso rimanere sospeso a tre quarti.

L’evoluzione della band è percepibile ed apprezzabile, ma in “Abdita” – più che di arrivo – si respira ancora aria di tappa intermedia. Il prossimo giro lungo, con ogni probabilità, sarà dirimente. 

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