A “Il Paese del sorriso”, l’operetta di Lehàr in salsa Corrado Abbati

“Il Paese del sorriso”, l’operetta di Lehàr in salsa Corrado Abbati

"Il Paese del sorriso", Pavia, Teatro Fraschini, 11 marzo 2015

Correva l’anno 1923 quando Franz Lehàr scrisse la partitura di “La giacca gialla”, diventata dal 1929 “Il Paese del sorriso”, operetta assai leggera, di gusto esotico e dalle facili ironie. A metterla in scena in questi mesi è l’esperta Compagnia Corrado Abbati, in una produzione inedita ed esclusiva.

Lo spettacolo è già stato ospitato in diversi teatri e abbiamo avuto il piacere di assistervi al Fraschini di Pavia, lo storico teatro di tradizione dell’antica città lombarda, caratterizzato da un cartellone assai vario.

Lehàr, musicista poliedrico di origini ungheresi, deve la sua fama ad una vastissima produzione di operette durante il suo soggiorno viennese. Genere floridissimo tra la seconda metà dell’’800 e i primi decenni del ‘900, l’operetta nasce come contraltare satirico e grottesco al melodramma e al grand-opéra ereditando tutte le caratteristiche dei generi minori. In realtà i temi trattati, se pur sempre frivoli e disimpegnati, affondano le proprie radici della buona società borghese del tempo e sempre nel solco, assecondato o contraddetto, dei valori morali condivisi, pregiudizi compresi.

Lehàr in particolare si contraddistingue per una produzione vivace e brillante, in linea con la tradizione viennese dei balletti e dei singspiel di cui riflette appieno entrambi i gusti. Il suo capolavoro indiscusso è la celeberrima “Vedova allegra”, tuttora in repertorio nei maggiori teatri del mondo.

Non meno famosa è tuttavia l’aria “Tu che m’hai preso il cuor”, al centro de “Il Paese del sorriso”. Romanza struggente e sentimentale, vacua parodia delle arie melodrammatiche, eppure così affascinante nella sua semplice musicalità. Molto piacevoli inoltre tutti i ballabili, l’ouverture, le arie e gli intermezzi, sempre squillanti e di un’allegrezza spensierata e misurata al tempo stesso.

Secondo la tradizione operettistica, ma in realtà un tempo appannaggio di tutto il mondo operistico, i libretti sono tradotti nella lingua del teatro ospitante. In questo caso la traduzione usualmente adottata in Italia dal libretto di Herzer e Löhner-Beda è quella di Mario Nordio ed Enrico Dezan, con lietofine conclusivo. Corrado Abbati ne ha riscritto e rimaneggiato i dialoghi, per adattarli alla sua frizzante produzione, tagliando e stringendo qualche scena, ma senza stravolgere più di tanto la trama e il senso.

La storia, molto lineare, si svolge tra Pechino e Vienna. Nel primo atto durante un ricevimento presso i conti Lichtenfels il principe cinese Su-Chong fa la conoscenza di loro figlia, la bella e ambita Lisa, già amata dal conte Gustav. Questo, compresa la malparata e rimasto scornato, si imbatte nella sorella del principe Su-Chong, la bella Mi, vera appassionata della cultura occidentale. Il principe Su-Chong e Lisa si scoprono irresistibilmente attratti e innamorati e risolvono per il matrimonio e il trasferimento presso la corte cinese.

Il secondo atto sposta le vicende a Pechino. Lisa, qui chiamata Fior-di-loto, è affranta dalla profondissima diversità culturale tra la sua Austria e il mondo cinese. Il colmo dello sconforto sopraggiunge quando il principe viene insignito della Giacca gialla, simbolo di dignità governativa imperiale, e a Lisa non viene permesso di assistere alla cerimonia. Ora che Su-Chong è Primo Ministro del Celeste Impero, suo zio Chang gli rammenta l’usanza tradizionale di prendere in moglie quattro donne cinesi, poiché agli effetti della legge natia il matrimonio con una straniera è nullo ed egli risulta ancora celibe. Il principe non può rifiutarsi. Nel frattempo giungono il conte Lichtenfels e Gustav, in cerca di Lisa. Tanto il padre quanto lo spasimante la trovano distrutta e insieme a lei progettano la fuga per il rimpatrio. Qui però Gustav cade definitivamente innamorato della stravagante Mi. Su-Chong si accorge del maneggio dei Lichtenfels e, in lacrime, rinnovando i suoi voti d’amore, lascia che la sua Fior-di-loto ritrovi pace e serenità fuori dalla Cina.

Nel terzo atto, di nuovo a Vienna, Lisa e Gustav piangono i loro amori lasciati nel lontano oriente. Sconsolata e delusa Lisa, ottimista e speranzoso Gustav, attendono il dispiegarsi del proprio destino mentre il vecchio conte Lichtenfels li conforta e ammonisce come può. Nel frattempo però in Cina è caduto l’impero ed è stata proclamata la Repubblica, il principe Su-Chong e la sorella Mi sono in fuga. I due, ormai in esilio, si rifugiano proprio a Vienna, dai Lichtenfels: Lisa e Gustav possono finalmente riabbracciare i rispettivi amati, pronti a riunirsi in matrimonio.

L’adattamento di Corrado Abbati è un susseguirsi di siparietti da cabaret, dall’umorismo malizioso e sfacciato, ma mai volgare, in cui ogni personaggio è bersagliato per le sue gaffe e dal quale restano estranei soltanto Su-Chong e Lisa. In effetti è ben costruito il gioco di alternanze tra la comicità dei dialoghi e le arie dei cantanti.

Lodevoli scenografia e costumi, fin troppo azzeccati per una produzione così poco pretenziosa. Del tutto insoddisfacenti invece le frequenti coreografie, alquanto imbarazzanti, sconclusionate, di poco gusto e mal eseguite dai pessimi ballerini, abbigliati senza senso. Completamente da rivedere.

Recitazione, luci e gestione degli spazi molto tradizionali e piacevoli, secondo una regia molto semplice ma efficace e d’effetto. Marco Fiorni, direttore musicale, ha preferito assecondare le esigenze dell’allestimento piuttosto che esporre una poetica coerente, tuttavia il risultato è stato gradevole.

Divertono e si sono divertiti gli interpreti, senza eccezioni. Notevole in particolar modo l’esibizione della bella Cristina Calisi, nei panni di Mi, artista capace di cantare in tonalità sopranile e al contempo ballare da vera soubrette e recitare da attrice professionista.

Forse ormai appesantito dagli anni Corrado Abbati, nei panni del conte Lichtenfels, ma ancora all’altezza del ruolo. Un poco fuori forma Claudio Ferretti, il conte Gustav, incostante durante la rappresentazione e dalle migliorabili potenzialità.

Sotto tono i due protagonisti, che avrebbero potuto interpretare con maggiore piglio i propri ruoli. Carlo Monopoli, il principe Su-Chong, dalla voce insicura, sempre intonato ma mai espressivo, bravo attore ma con qualche inflessione nella dizione. Nell’aria che rende celebre il suo personaggio, “Tu che m’hai preso il cuor”, non ha potuto reggere il paragone con le grandi voci tenorili che vi si sono cimentate.

Ugualmente Raffaella Montini, Lisa, non ha saputo utilizzare al meglio la sua voce pure così corposa, mal gestendo i salti di registro e un poco deludente nella recitazione.

Passano la rassegna della critica Antonella Degasperi, la contessa Federike, Fabrizio Macciantelli, segretario del principe Su-Chong, e Antonio Cadoni, lo zio Chang.

Nel complesso la regia di Abbati ha consegnato agli spettatori la verve che ci si attende dall’operetta, nel solco di una tradizione italiana briosa e scanzonata, che riesce a rinascere a distanza di decenni. Non proprio giovane il pubblico del Fraschini, si perdoni la perifrasi, ed è un peccato, per un genere musicale che meriterebbe maggiori onori ed attenzioni.

Articolo di Marco Nebuloni per Fermata Spettacolo

Per approfondire: http://www.fermataspettacolo.it/lirica/il-paese-del-sorriso-loperetta-di-lehar-in-salsa-corrado-abbati

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