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7,5/10

Keleketla

Keleketla!

La scena meta-jazz contemporanea (possiamo definirla così?) l'altra sera mi ha fatto tirare una pacca sulla fronte, perché ha suggerito un'analogia che stranamente mi era sfuggita fino a un attimo prima.

Da un po' di anni la critica letteraria parla di opere-mondo, di romanzi globalizzati eccetera, per alludere a quel macrocosmo di opere in cui si mescolano tradizioni letterarie distanti (un melting pot che affonda le radici nella letteratura nordamericana e nel post-modernismo), le opere in cui convergono “tutte le storie”, tutte le grammatiche, esaltando le varie voci in una giustapposizione che al tempo stesso è rivendicazione identitaria e aspirazione globalista.

Letteratura senza confini, in sintesi (penso al sommo capolavoro 2666 di Roberto Bolaño), che trova – in qualche modo - il corrispondente musicale nella BAM, a mio modesto parere.

Soprattutto nelle proposte che vanno oltre la fusion di maniera e il terzomondismo da cartolina (il famoso colonialismo premuroso di cui parlava Simon Reynolds già a fine anni '80), e in cui le varie anime invece coesistono e si alimentano a vicenda, in cui l'insieme è qualcosa di più e diverso dalle singole componenti. In cui diventa difficile parlare di concetti anacronistici come genere o area di provenienza.

Arrivo al dunque: i Keleketla (il nome della biblioteca indipendente di Johannesburg) portano alle conseguenze più estreme il concetto di opera-mondo e anche di Black American Music (oramai, anche il riferimento all'America è diventato un anacronismo).

Anche solo abbozzare una descrizione del collettivo (di cui fanno parte più di venti musicisti) è un'impresa: i Keleketla sono una creatura ibrida e proteiforme, che sboccia a Johannesburg (e qui subito i jazzofili dovrebbero raddrizzare le antenne, perché la scuola sudafricana è sulla cresta dell'onda almeno dagli anni '70), allunga i tentacoli fino a Londra (inevitabile, di questi tempi, e forse è inevitabile che ci sia lo zampino di Shabaka, fulcro del movimento londinese), non prima di aver perlustrato in lungo e in largo il proprio continente (Lagos, una delle metropoli-mondo della contemporaneità, nonché la patria di un certo Fela Kuti e del più-grande-batterista-di-sempre Tony Allen, che ha fatto in tempo a collaborare al disco prima di salutarci), la Papua Occidentale e quindi l'America, e in particolare New York e Los Angeles (anche qui, inevitabile).

I registi del progetto dichiarano, un po' banalmente, di aver lavorato per trovare un “terreno musicale condiviso”, ma un proclama generico fino alla trasparenza non rende giustizia a quell'arazzo che è il disco pubblicato a giugno dal mega-collettivo.

Prendete “Sheperd Song”, ovvero l'afrobeat del 2020, la sua ricchezza percussiva, il rap sudaficano; o anche la splendida “Freedom Groove”, che sfida apertamente la mia tendenza a incasellare i pezzi: r'n'b, percussioni che sono distillato purissimo di afro-jazz, tastiere che strizzano l'occhio a Miles e Herbie, e ancora spoken word (i Watts Prophets) e free-funk-jazz, il tutto compattato dentro sette minuti abbondanti di pura energia, roba che l'ultimo Kamasi ecumenico e oleografico farebbe bene a prendere nota. Non è difficile immaginare Fela Kuti che esulta soddisfatto, dovunque si trovi in questo momento.

Difficile anche non pensare ai Last Poets che battono un cinque, o ai paladini del jazz astratto che si invaghiscono dell'hip hop (“Crystallise” evoca le astruse acrobazione concettuali di Steve Lehman). Il collettivo ci sa fare anche quando rallenta il passo e diventa più scopertamente soul (“Broken Light” e le sue svenevolezze), se non addirittura afro-pop (“International Love Affair”, quasi una metonimia del disco e dell'intero progetto, che scodella peraltro il ritornello più azzeccato dell'opera).

Manca forse il brano capace di farmi venire le lacrime agli occhi, ma questo disco rimane un'esperienza cruciale di questo nuovo decennio; aggiorna alle esigenze della contamporaneità una lunga serie di linguaggi ed estetiche (funk, afrobeat, spoken word, hip hop, r'n'b, soul, pop) e lo fa con disinvoltura, strizzando l'occhio. Spedisce in archivio una pletora di concetti e dogmi e avvicina davvero il paradigma dell'opera-mondo, sia in senso geografico che estetico e culturale. 

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Marco_Biasio alle 21:16 del 14 settembre 2020 ha scritto:

Questi dovrebbero essere i Coldcut sotto mentite spoglie. Bellissima segnalazione, ci darò sicuramente seguito.

FrancescoB, autore, alle 8:05 del 15 settembre 2020 ha scritto:

Esatto, c'è anche il loro zampino, Londra non ha portato in dote solo Shabaka