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R Recensione

7/10

Eivind Opsvik

Overseas V

New York è l'epicentro della musica jazz contemporanea e doverlo ripetere in ogni recensione rischia di diventare defatigante, ma mi trovo costretto a farlo: la Grande Mela – non è una novità, il jazz del '900 matura e diventa grande sempre fra le avenue di Manhattan – da anni attira un numero sterminato di musicisti di personalità e di qualità. La città che ha partorito swing, bebop e free non molla la presa, in altri termini, e anche oggi chiama a raccolta una fetta importante dei nomi chiave della scena new jazz e post jazz.

Le ambizioni vaste del jazz contemporaneo sono palesi, ed è interessante notare come i musicisti non guardino esclusivamente alla musica nera e alle sue ramificazioni (da Kamasi a Kendrick, passando per tutte le possibili combinazioni – ricordo con piacere l'avant-hop-jazz dal sapore post moderno eppure africano di un altro newyorkese, Steve Lehman), ma anche alla tradizione del rock e dello stesso jazz.

Eivind Opsvik – norvegese di nascita, newyorkese d'adozione – è uno dei massimi esponenti del post-jazz contemporaneo. “Overseas V” ne conferma la statura di strumentista e soprattutto di pensatore.

Il ragazzo norvegese è bassista di primo piano e si circonda di musicisti di vaglia – Sacks al pianoforte e alle tastiere – e di veterani della scena del Village alla chitarra, ai sassofoni e alle percussioni.

Strumentazione piuttosto classica che però sviluppa un linguaggio originale. Non ho parlato della Grande Mela solo per ragioni geografiche: pochi secondi e “I'm Up This Step” - così come “Brrasp!”- aprono squarci di rumore no wave incastonati dentro strutture jazz solo all'apparenza canoniche. Il sassofono giganteggia perché strappa con un'energia post-coltraniana avvicinando i contorsionismi di James Chance e compagnia di rumoristi: al contempo un omaggio alla storia (con tanto di applauso al CBGB) e una ventata d'aria fresca.

In “Brrasp!” il tema è accompagnato da un pianoforte puntellato e delicato che – paradossalmente – non potrebbe muoversi meglio, e da un contorno percussivo frenetico in odore mutant disco (sempre della New York di fine anni '70 si parla). Questo è ibridismo pensato e intelligente, che aggira ogni sensazionalismo gratuito: “Cozy Little Nigthmare” ricama un tema spigoloso e strano al pianoforte, mentre le percussioni avvicinano l'idea di funk concettuale. “First Challenge on the Road” scorre perché il sassofono sbuffa un tema minimalista e il pianoforte lo rincorre – come costruire un passaggio memorabile tornano sempre sulla stessa nota, in pratica.

Shoppers and Pickpockets” accenna a un lirismo quasi evansiano – splendidi alcuni spunti melodici del sassofono - collocandolo dentro architetture minimaliste e sempre in odore di wave alternativa.

Aspetto a parlare di capolavoro per prudenza, ma ecco ci siamo capiti.

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