Wovenhand
Refractory Obdurate
Si parla sempre troppo poco di Dave Eugene Edwards, lo Ian Curtis della musica roots americana (diciamo uno Ian Curtis che non si è mai messo a contemplare il pavimento dellobitorio di Decades, per recuperare invece una certa serenità).
I Sixteen Horsepower sono fra le realtà più elettrizzanti degli ultimi decenni (e mi riservo di approfondire in separata sede), ma cè da dire che anche i Wovenhand (la sua seconda creatura) non sono troppo da meno.
Un po come Tom Waits o Nick Cave (in misura meno debordante in termini di genio, ma ecco senza esagerare), Dave riesce a conservare unintegrità artistica e una qualità media molto alta, di fatto, senza modificare troppo la propria formula: e anzi, sguazzandoci dentro come se nuotasse beato in piscina.
Non che gli album siano sempre sublimi, naturalmente. Laura mistica e i sinistri bagliori di Secret South, o anche solo di Woven Hand (2002), non torneranno più: lispirazione da cantautore oscuro prestato allumore torbido del blues sudista, o magari alle scatenate danze folk degli Appalachi, si è un po ridimensionata.
Tantè vero che Dave, con Refractory Obdurate, prova a compensare il fisiologico calo rendendo le sue composizioni più aggressive, coniando una sorta di dark-country-noise sulla falsariga degli esperimenti underground degli anni 80 (basti un ascolto distratto a Corsicana Clip, o anche alla profetica Masonic Youth, evidente omaggio al potere ipnotico del feedback sin dallispirato titolo), o magari tentando la strada di una vaga psichedelia.
La cifra stilistica di molti brani è sostanzialmente questa: Dave crea un groviglio noise sui generis per aprire nuove prospettive alle sue ballate. Lesperimento, tuttavia, riesce a metà, perché le cose migliori sono quelle più tradizionali.
Good Shepherd, ad esempio, cavalca imperiale e strappata da possenti dosi di rumore, nella ricerca di unepica grandiosità che riesce però solo a sfiorare.
Questo è il problema: il messia del Colorado non pubblicherà mai un disco brutto o del tutto deludente, ma questa volta sembra voler annebbiare lascoltatore anziché ammaliarlo (come invece gli è quasi sempre riuscito alla grande).
Le scintille liberate dalle chitarre e lenfasi rumorista cercano forse di mimetizzare una qualità compositiva non sempre allaltezza: tantè vero che Dave lascia davvero il segno quando torna sui suoi passi, progettando lugubri sermoni blues quasi degni di Nick Cave (la bella Salome), o strimpellate rustiche che barcollano sullorlo dellabisso (King David, o la meravigliosamente anacronistica Obdurate Obscura, poema nero degno dei suoi momenti migliori) più che quando si inventa rocker spregiudicato (si pensi allapprossimativa Field of Hedon, che suona come un banale pezzo noise temperato", o a "Hiss").
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