R Recensione

7/10

Matana Roberts

always.

Come si fa a recensire 40 minuti abbondanti di solo per sassofono tenore?

Il rischio è che il 90% degli ascoltatori rifugga l'hipster mood e si butti in qualcosa di più godibile.

Io provo comunque a dire la mia, sperando a) di non essere bollato come hipster de noantri e b) di incuriosire qualcuno. Matana Roberts da Chicago in questo 2015 (preciso, non sia mai che ne spunti fuori un altro all'improvviso a deliziarci) ha già dato alle stampe un lavoro che è destinato di default a finire fra i dischi dell'anno solare.

Mi rimetto alla relativa recensione per evocarne le gesta: la Roberts è una visionaria con coraggio da vendere, e spero di aver reso – con Paolo Nuzzi – almeno in parte la potenza espressiva del terzo capitolo della sua saga.

Always” torna su coordinate un attimo più tradizionali. Se così si può dire: ho citato ripetutamente la musica “solitaria” maturata fra anni '60 e '70 (non solo), le follie degli strumentisti più spregiudicati del tempo.

Posso riassumere brevemente? Bill Evans si mette a suonare “Alone”, e poi “Conversations With Myself”, e insomma ci insegna che anche ore di pianoforte in solitudine possono aprire un varco dentro la tua testa senza annoiarti. Ma se l'impresa, con il pianoforte, era forse un minimo più pensabile e accessibile, ci penseranno altri a spostare ulteriormente verso il nulla l'asticella: Lee Konitz, reduce dell'era cool (e musicista sopraffino), gioca con suoni e parole e incide “Lone-Lee”, per sassofono solo; un certo George Lewis addirittura mette su disco un “Solo Trombone Records”, che credo piaccia al sottoscritto e a 4-5 trombonisti eccentrici in tutto il mondo. Prima di loro, però, il grande passo l'aveva mosso il solito Anthony Braxton, il nome chiave di tutta la musica jazz d'avanguardia degli ultimi 45 anni.

Ecco, proprio Braxton è il primo e più importante referente della Roberts (non a caso: AACM, Chicago).

Ma la sua cerebralità geniale e algoritmica con Matana ritrova un po' di ossigeno. Un altro referente è Albert Ayler, per la comune capacità di recuperare temi di origine folclorica, pastorali protestanti o semplicissimi cori gospel, per trasformarli in bordate di rumore grezzo. Ayler, secondo i suoi massimi cultori, aveva trovato il suo suono, il che non solo nel jazz, ma direi in tutta la musica, è fra i traguardi più alti.

Matana rimane un passo indietro, in questo caso, perché evita contorsionismi cacofonici: la sua è una lunga, interessante narrazione. Naturalmente debitrice di tutta la scuola dei suddetti esploratori delle stelle, ma anche legata – in qualche modo – alla melodia, a una certa forma di piacevolezza. Le note ieratiche e prolungate, i voli sui vuoti della ritmica, i cambi di passo sempre piuttosto controllati, le arcate melodiche toccanti e chiaramente leggibili: Matana cerca e trova una forma propria di spiritualismo, affine a quella dell'ultimo John Coltrane se vogliamo, tendenzialmente un po' meno violenta e radicale di quella dei Braxton & C.

Fanno eccezione, in tal senso, alcuni passaggi del secondo brano (9 minuti, sempre untitled), decisamente più affini al contorto universo ayleriano.

Analizzare ogni singolo passaggio è troppo difficile e forse inutile: l'impatto globale rimane stupefacente e notevole per la coerenza interna, la sassofonista evidenzia – ancora una volta – come le doti tecniche notevoli possano mettersi al servizio di una missione più importante (ovvero, quella di raccontarsi).

Il suo sassofono che echeggia e rimbomba nel vuoto è destinato a colpire chiunque sia un minimo affine a questi territori, e non cerchi per forza di cose l'estremismo assoluto: Matana media un po' fra piacevolezza melodica e trovate visionarie, e anche per questo il suo lavoro è notevole.

V Voti

Voto degli utenti: 5,5/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Paolo Nuzzi alle 8:23 del 17 dicembre 2015 ha scritto:

Da ascoltare sicuramente, anche se i dischi solo per sax alla lunga possono un po' stancare. Ti dirò la mia al più presto, bravo Fra', as usual.

FrancescoB, autore, alle 14:28 del 17 dicembre 2015 ha scritto:

Sì non è proprio il disco da "mettere su" con gli amici a capodanno, ma possiede lirismo e forza "gestuale", insomma può incollarti alla sedia per tutta la durata in virtù della sua capacità espressiva "intrinseca". Per me resta più accessibile del Braxton più oltraggioso, anche se si parla sempre di musica complessa.