wovenhand
The Threshingfloor
David Eugene Edwards non è esattamente un musicista di primo pelo. Sul mercato dal 1995, anno dell’esordio dei 16 Horsepower (tra i più interessanti interpreti dell’alt-country/folk dell’epoca) quest’uomo è sopravvissuto con sorprendente integrità all’avvicendarsi dei tempi, delle mode e degli stili, ritrovandosi a quindici anni dalla partenza e dopo una serie di dischi spesso strepitosi ancora devoto al proprio primigenio intento: scandagliare i più oscuri recessi dell’animo umano attraverso un approccio in primo luogo profondamente radicato nella religione (cattolica, nello specifico) e, in secondo, solidamente sorretto ed ispirato dalla rilettura della tradizione musicale anglo-americana (non a caso i Gun Club figurano fra i suoi preferiti).
Un vecchio leone mai acquietatosi, che con la ragione sociale Wovenhand ha cercato, già prima dello scioglimento dei 16 Horsepower, di portare avanti la sua poetica anche in termini di sviluppo musicale (passi importanti, in questo senso, sono stati compiuti in Blush Music, del 2003, e nell’ultimo, elettrico Ten Stones del 2008). Tipo originale Edwards: se uno come Ishman Bracey rinnegò il blues per abbracciare la fede, lui per la stessa ragione la “musica del diavolo” l’ha beatificata ed eletta a suprema messaggera di Dio. Senza per questo voler fare del bieco proselitismo. Anima oscura e tormentata, è sempre riuscito ad instillare nei suoi dischi un’aura di cupo e sincero misticismo, al punto che già i suoi primi lavori si meritarono l’etichetta di gotica americana, o gothic-folk.
The Threshingfloor è il sesto album in studio a nome Wovenhand. Ed è un’autentica gemma. Senza rinnegare in toto la svolta operata in Ten Stones, Edwards torna a suoni prettamente acustici contaminando però la sua formula con influenze world fra le più disparate: musiche cha arrivano in primo luogo dall’oriente (dall’India, in particolare, fin dall’iniziale dispiegarsi di Sinking Hands su di un om ostinato quanto ipnotico), ma anche arie che sprofondano nel tribalismo africano piuttosto che nella tradizione celtica o est europea (l’onirica Orchard Gate, da ricordare anche per le ottime sovrapposizioni delle metriche). E non si riesce però ancora a circoscrivere tutto quello che in The Threshingfloor trova un equilibrio a dir poco mirabile: psichedelia anni ’60 (Wheatstraw pare uscito dall’LSD dei primi Pink Floyd), country-folk delle origini con tutta la sua componente appalachiana (Raise Her Hands), buona parte delle pieghe prese dalla rivoluzione post-punk a cavallo fra ’70 ed ’80 (la scena freak californiana e quella “mutante”newyorchese -si ascolti la titletrack, o la superba rilettura di Truth dei New Order- , l’apertura al tribalismo del Pop Group e delle Slits aggiornata però all’esordio degli Yeasayer) per arrivare alle forme psichedeliche e revivalistiche più recenti, dai Flaming Lips agli Animal Collective.
Tutto il disco (salvo la chiusura, un country-blues suonato alla vecchia maniera, dedicato alla “casa” Denver e completamente fuori contesto) vibra dentro un unico, spettrale quando seducente, incantesimo arcano: buona parte dei pezzi poggia su strutture armoniche statiche e ripetitive, che sempre conferiscono alle atmosfere proprietà soavemente ipnotiche quando non addirittura ultraterrene. Che ci si muova quindi con lentezza fra poche corde pizzicate (le intense A Holy Measure e Singing Grass) oppure entro scheletri percussivi a volte accoglienti (His Rest, ancora una volta, è solo magnifica), a volte sedotti da una certa foga (Terre Haute, portata da un flauto ungherese) il risultato resta sempre eccezionale.
C’è poi la voce del nostro. Calda, espressiva fin quasi alla possessione e per di più costantemente affogata (ma non sommersa) negli effetti, intesse una serie di melodie splendide quanto per lungo tempo inafferrabili nella totalità dei particolari. Ricorda piuttosto spesso, fra le più attuali in circolazione, quella di Spencer Krug (His Rest potrebbe davvero essere un pezzo suo), senz’altro a livello di timbro ma anche e soprattutto per gli amabili vizi cui spesso si lascia volentieri andare (uno su tutti, la tendenza a salire sulle chiusure). Vizi che, come nelle migliori e più rare cose, diventano senza alcuno sforzo suggestivi e caratterizzanti pregi.
Un piccolo gioiello dunque, in grado di coniugare fruibilità pop, complessità e spessore in maniera così sublime da far ricordare, anche per saturazione degli spazi sonori e sontuosità del suono, quel disco impressionante che fu Sulk degli Associates.
Fatelo vostro, che qui dentro è tutto fatto da Dio. E ci mancherebbe pure che ad un simile figliol prodigo non desse una mano, una volta ogni tanto.
Tweet