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R Recensione

7/10

Lou Dalfin

Cavalier faidit

Con trenta anni di carriera alle spalle e oltre mille concerti in giro per tutta Europa, i Lou Dalfin, alfieri della rinascita della musica occitana, tornano oggi con un nuovo lavoro, un insieme di racconti in musica legati alla vita del loro mondo e di quello che lo circonda, esattamente come gli antichi trovatori da cui discendono, unendo però alla rivalutazione delle proprie radici anche una visione aperta sul mondo circostante. 

Concetto che dai testi (Di servi e di vigliacchi è imbottito, il mio paese canta il Cavalier faidit) si espande alla musica, scegliendo di collaborare con artisti apparentemente lontani dal folk tradizionalmente inteso quali Bunna (Africa Unite), Roy Paci, Moussu T (Massillia Sound System), Vicio (Subsonica). D’altra parte, la forza dei Lou Dalfin è sempre stata quella di riprendere la musica occitana e  rivitalizzarla con le sonorità contemporanee, rendendola fruibile da tutti, e soprattutto dal pubblico più giovane. Così anche in questa occasione, accanto ai tradizionali strumenti occitani (ghironda, fisarmonica, organetti, cornamuse) troviamo quelli più consoni al rock (chitarra elettrica, basso e batteria) ad incrociarsi in ballate effervescenti e arie di festa.

Un incontro di strumenti e generi musicali, che è anche un incontro di culture, esattamente l’opposto di chi vorrebbe che le culture si chiudessero in se stesse, di chi rifiuta ogni idea di contaminazione. È così che l’Occitania incontra prima i suoni gitani in Randolina, che apre il disco con la sua bella chitarra jazz manuche, e poi il tex mex di Adiu leon (con tanto di tromba, fisa, violino e gritos) brano che si elettrifica nella seconda parte con batteria e chitarra elettrica.

In Labrit arriva anche il reggae, complice un inedito Bunna in dialetto, e tra ritmi in levare e strumenti tradizionali, i Lou Dlafin portano la Giamaica a spasso per le valli occitane. Ancora ritmi caraibici in Lo retorn di corsaris, tra fisa e trombe, guest Moussou T, dove la tromba di Roy Paci si fa strada in un brano dai ritmi quasi dance e brasileri.

In Rota d'amont si fa strada anche una grande chitarra blues, e Sergio Berardo si lancia in un cantato quasi rap. I Lou Dalfin sembrano qui voler spingere la contaminazione tra le radici e la tradizione da un lato ed i suoni contemporanei di provenienze diverse dall’altro ad un livello ancora più alto. Ma l’esempio perfetto di come i suoni tradizionali possano mischiarsi a quelli contemporanei arriva con Passamontanhas, un brano dal cuore rock cantato a due voci e con La frema del rei-'o gweddo, col suo intro di cornamuse e un gran ritmo su una batteria quasi da marcia, in cui tutta la band gira a mille, e gli strumenti antichi e moderni si amalgamano alla perfezione.

Non mancano ovviamente anche i brani più legati alla tradizione, come Serena, dove spicca la ghironda di Berardo in un coro di voci femminili sotto l’incalzare della batteria, o i classici brani da festa di paese come Picar lo ferre, che parte con un intro di solo voce e violino, per svilupparsi in una aria molto irish nei suoni, cantata in coro, o lo stesso Cavalier faidit, brano Lou Dalfin al 100%,  tirato, su cui si innesta un riuscitissimo assolo di chitarra elettrica.

Brani pronti a far scatenare la festa nei concerti si accompagnano a incantevoli ballate occitane, guidate dalle fisarmoniche di Dino Tron e dalla voce di Berardo, che ci porta in un mondo fatto di cavalieri e sirene, giullari e re, stadi di calcio (il mitico Filadelfia del Torino) e TGV, tra feste e osterie, pastori e poeti, e villaggi che si svuotano, un mondo poetico che guarda al passato per parlarci del presente e del futuro (Devi guardare la tua valle, devi ascoltare la sua gente, Che viene da lontano e che ci porta, ad andare ancora più lontano, La tua valle è una finestra spalancata, su un universo, Di memoria voci storie, di parole suoni lavoro, Di nobiltà strade gloria, di coraggio e di sogno).

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