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R Recensione

7,5/10

Cesare Basile

Cummeddia

Anticipato dal singolo “L'arvulu rossu”, l’11 ottobre esce il nuovo album di Cesare Basile, “Cummeddia”, disco con cui il musicista siciliano prosegue un cammino iniziato oltre trent’anni fa, un viaggio musicale in undici dischi, che passando dal rock alla canzone d’autore l’ha portato a raggiungere importanti riconoscimenti, tra cui spiccano due Targhe Tenco. Un percorso che Basile ha proseguito sempre a testa alta, senza compromessi di sorta e cedimenti al mercato e alle sue logiche. Anche per questo lavoro ha confermato la scelta: niente SIAE né altre agenzie di collecting, niente agenzia di booking per i concerti, e disco registrato ancora una volta negli studi Zen Arcade della sua Catania.

Il disco prosegue un discorso musicale iniziato già da qualche anno, che vede il cantautore catanese proporre un suono che si rifà da una parte alla tradizione popolare siciliana, e dall’altra ai suoni del cosiddetto desert blues, divenuto popolare in Europa grazie a nomi quali Tamikrest e Tinariwen. E non è un caso se tra i musicisti che hanno collaborato al disco, troviamo alle tastiere Hugo Race, che con i Tamikrest ha lavorato al progetto Dirtmusic, e ai tamburi a cornice Alfio Antico, monumento della tradizione popolare siciliana.

Su questi due riferimenti forti, i testi di Basile colpiscono ancora una volta per la loro forza, crudezza e sinteticità, a partire dal primo singolo estratto dal disco, “L'arvulu rossu”. Ispirato a una storia vera e terrificante (raccontata nel libro La città e l'isola di Gianfranco Goretti e Tommaso Giratorio), il brano racconta la persecuzione e deportazione degli omosessuali catanesi nel 1939 ad opera del questore Molina. Una canzone dal suono elettrico, in cui Basile, con amarezza, sottolinea che “continuiamo ad essere figli della stessa infamia.

I suoni elettrici accompagnano anche “E sugnu talianu”, un canto di rabbia per la condizione del nostro paese, dove l’autore utilizza la metafora della peste per descrivere la diffusione ad arte della paura da parte del potere, al fine di sottomettere una popolazione (“ora che lo schifo fa terremoto, i peggiori comandano le feste, la peste ha fatto pustola dentro le teste”), creando una falsa situazione di emergenza “in cui la sospensione delle libertà viene presentata come il prezzo necessario per la sopravvivenza della società”. Tema che torna in “Cchi voli riri?”, dove la chitarra di Hugo Race e il violino di Rodrigo D’Erasmo impreziosiscono un brano in cui Basile più che cantare racconta, quasi sottovoce, la diffusione dell’odio tra i popoli

Assume spesso in questo lavoro un ruolo preminente la chitarra: quella che crea un ritmo ripetitivo, circolare, come base sonora di “Setti venniri zuppiddi”, quella elettrica di “La curannera” che con i suoni percussivi forma un tappeto di suoni su cui la voce di Basile si alterna al coro di voci femminili, per dipingere un breve ritratto di un tempio che fu, o ancora quella in primo piano in Cummeddia”, un lento blues arricchito dal violino di Rodrigo D’Erasmo

Ma sono i brani dove folk e blues si uniscono, come in “Chitarra rispittusa”, che colpiscono maggiormente. Qui tradizione e musiche delle radici si fondono insieme, quasi a creare un nuovo linguaggio popolare. Come nel folk blues acustico di “Mala la terra”, con il suo coro femminile e la chitarra che rimanda ai Tinariwen; si direbbe desert blues se non fosse un termine ormai abusato. Questo non è il blues del deserto, ma quello dell’anima profonda della Sicilia. La Sicilia di “La naca ri l'anniati”, una quasi filastrocca dai toni dark che si sviluppa tra blues, folk e canzone popolare, il cui tema è quanto di più tragico vive il nostro mondo oggi (La culla degli annegati è la traduzione italiana del titolo), sviluppato anche nel brano successivo, “Chiurma limusinanti”.

Per chiudere un disco così profondo e intenso, il cantautore catanese sceglie la leggerezza di un brano quasi pop, “Mina lu ventu”, dove troviamo ancora il violino di Rodrigo D’Erasmo e la lapsteel di Roberto Angelini. Con “Cummeddia”, Cesare Basile dimostra di aver ormai trovato una strada molto personale, diremmo unica in Italia, creando una musica senza tempo, senza confini, e senza possibilità di darne una classificazione precisa: una dote che è di pochi.

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