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R Recensione

8/10

Unrest

Imperial f.f.r.r.

Mark Robinson accende la scintilla, anche quando si traveste da guastatore pop.

Chi ha vissuto la sua epopea, come il sottoscritto (anche se a posteriori), storce il naso davanti alle fastose celebrazioni che circondano l'indie-pop contemporaneo: la verità è che per un decennio buono la musica alternativa americana ha espresso una vitalità e una bulimia creativa senza precedenti, al cui cospetto la contemporaneità suona irreversibilmente moscia.

Era naturale che prima o poi la lanterna si spegnesse, e chi – come me – si è schiantato alla velocità della luce contro le pareti di quel gigantesco palazzo, fino a sfracellarsi del tutto, non poteva e non può amare allo stesso modo il perfezionismo un po' scialbo di molto indie moderno.

Per un certo periodo la musica rock e pop indipendente era questione di vita o di morte. O, almeno, era questione di pazzia e di intelligenza (che spesso sono la stessa cosa, o sbaglio?) elevate all'ennesima potenza. Oggi mi sembra che si tratti solo di buona (?) musica.

Gli Unrest appartengono al filone degli schizoidi, la loro idea di rock assomiglia a uno schiuma party studiato appositamente per i protagonisti di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", è sfaccettata e carica come una bomba carta. "Tink of South East" è una Bibbia del rock anni '80, e il fatto che si ancora poco considerato è un crimine imperdonabile.

Nel 1992 Mark Robinson si ripete, pur modificando radicalmente la propria cifra stilistica. Siamo in epoca grunge/britpop, ma Mark non sembra curarsene troppo (anche se è fra i padri spirituali del grunge, solo decisamente più allegro): "Imperial f.f.r.r." (non chiedetemi cosa significhi un titolo simile) è la perfezione dell'indie pop trasformista e pschedelico.

Ha smussato gli angoli rispetto al capolavoro precedente: meno hardcore punk furioso, ma anche meno progressive architettonico (la stupenda rilettura del capolavoro dei King Crimson), qui si batte la via tracciata a grandi linee dal pop deforme e dilatato di "Hope", tanto da suonare quasi come un'altra band.

E allora, ecco "Suki" (è qui che volevo arrivare, al pezzo pop perfetto che quasi nessuna band indie sfornerà in un milione di anni). Strofa convulsa e quasi incantabile (Robinson blatera in preda all'estasi parole come sister, flower power, probabilmente giocando con le assonanze e con le immagini senza una ragione precisa), la tensone che si tramuta in aria compressa e poi esplode nel ritornello miracoloso, che si contorce fino allo spasmo - "Suuuuuki".

Le chitarre strimpellano alla Feelies, pulite e jangle, così come lungo "I do believe you are blushing", non meno accattivante nella splendida struttura melodica: anche qui il messaggio è poco chiaro, ma Robinson non è un cantautore vero e proprio, è più un assemblatore di immagini sbilenche e di metafore incomprensbili. L'altro momento imprescindibile per tutto l'indie-pop è la para-corale "Isabel", ingegnosa negli incastri, stralunata eppure vivacissima nei sinousi movimenti di una chitarra sempre più celeste.

Altrove Mark guarda alla psichedelia aperta dei sixties, aggiornandola lungo mantra minimali ed eterni, appena disturbati dal suo bisbiglio notturno che si accende a fiammate (la title track). Le chitarre si muovo agili e cristalline, e neppure hanno bisogno di modificare il giro di accordi per rapirti. Anche "Wednesday & Proud" è sonnolenta e fugace, ma ha litigato con la noia, e si perde dentro un immaginario indie-progressivo vasto ed etereo che farà proseliti enormi (American Football?).

Ecco, i devoti del Vangelo-Robinson non si contano neppure: solo che nessuno, praticamente, possiede la sua scintilla.

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Voto degli utenti: 8,3/10 in media su 4 voti.
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gramsci 8,5/10

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