American Football
American Football
Un po' come i Pixies e i Nirvana sono riusciti a compattare dentro brani convulsi il vasto panorama rock anni '80, gli American Football di Mike Kinsella nonostante avessero, fino al 2016, pubblicato un solo LP hanno saputo riassumere nel migliore dei modi le atmosfere del decennio slow per eccellenza. American Football vede la luce nel 1999 e, in fondo, chiude un'epoca (The Summer Ends). Quella segnata dall'emo del midwest, dalla rivincita delle campagne ventose sulle megalopoli delle coste. Più di ogni altra cosa, chiude l'epoca segnata dalle confessioni a cuore aperto e a confessarsi sono sempre cuori giovani.
American Football conquista anche i non-adepti perché evita di strafare: il suo segreto è l'equilibrio, nei singoli brani e anche nella durata complessiva. Equilibrio che lo stesso Kinsella non sempre è riuscito a trovare, nelle sue innumerevoli incarnazioni, pur tutte ragguardevoli (dai Joan of Arc in avanti).
American Football annega le melodie dolenti dell'emo-core (straziate come solo quelle degli Squirrel Bait), dentro strutture che si collocano al crocevia fra gli Unrest di Imperial f.f.r.r. e i Red House Painters di Down Colorful Hill, inserendo anche figure ritmiche rubate al math rock.
Le chitarre, cristalline, sembrano aver perso il fiato. Non gridano più, annegate in una sequenza di accordi teneri e abbaglianti. La voce di Mike si immola in un bisbiglio ora angelico, ora lievemente lacerato. Più che altro, riflette: esorcizza i fantasmi, annega in un mare di dubbi, fa a pugni con i rimorsi (But The Regrets Are Killing Me).
Eccoci al punto: se ci pensate, non esiste nulla al mondo che abbia saputo indagare i moti del cuore e dello spirito, che segnano indelebilmente adolescenza e post-adolescenza, come il rock alternativo americano. Quasi che si potesse riassumere la sua parabola, dai Germs agli American Football (passando per Replacements, Sonic Youth, Dinosaur Jr.), in un lungo diario imbrattato da elucubrazioni para-filosofiche, pulsioni sessuali ora esibite, ora represse, ora ingombranti; amicizie e legami indissolubili andati in frantumi. Il senso di smarrimento davanti alla società, e quindi alla vita, spadroneggia e catalizza ogni voce, ogni respiro.
Sembra che questo articolato filone sia nato per cristallizzare il flusso dell'età dei turbamenti. Quasi che i giovani americani strani, ad un certo punto, avessero socchiuso le ante di casa e si fossero buttati sul letto a pensare. Troppo.
Gli American Football non si sottraggono al compito e disegnano parabole annacquate dentro un pianto strozzato. Lente ma fascianti, smorzate ma vitali: Kinsella dà voce alla sterminata gioventù di provincia che ha perso ogni punto di riferimento, anche ideologico (dopo il fallimento della rivoluzione hardcore), stende il testamento irrevocabile dell'indie rock, il suo lascito più toccante e rarefatto.
Honestly I can't remember those teen dreams / All my teenage feelings / And their meanings, canta ad un certo punto, lungo quello che è forse il capolavoro nel capolavoro. Il cambio di tempo e di ritmo che scuote Honestly?, dopo quasi due minuti, con la chitarra che si impenna elettrica e moderatamente slintiana, ha del miracoloso.
Mike si muove dentro un groviglio di pensieri e prova a spianarsi la strada; ogni tanto, una tromba introversa fino al parossismo stende lunghe note che sembrano lacrime trattenute a stento: The Summer Ends goccioola nel vuoto emozioni perdute, stringe il cuore ad ogni accordo, ad ogni sussurro.
Non si parla di disperazione, però. Più che altro si sfida il silenzio, si sfoga lo spirito. La sessione ritmica titinnante rappresenta un significativo valore aggiunto, perché ruba al post rock tempi dispari e fluttuazioni decisamente più complesse della media emo. L'impasto, in sostanza, è stratificato. Eppure suona minimale, in punta di piedi: e qui sta buona parte del suo fascino.
Never Meant è l'elegante prologo, saturo di commozione e di sincerità, e medita mentre lo sguardo si perde verso l'orizzonte.
For Sure è una lenta confessione che si avvicina agli abissi di Mark Kozelek, valorizzata da un inciso melodico accorato e bellissimo che potrebbe proseguire all'infinito. La lunga Stay Home la resa definitiva, l'epitaffio morale dell'ideologia hardcore, il cui emblema è la facciata raffigurata in copertina adocchia il post rock, ma conserva una carica di umanità che la colloca due spanne sopra quasi tutta la concorrenza.
Il commiato di The One With The Wurlitzer mette la firma sul testamento olografo e ricama gli ultimi momenti irripetibili.
Allora è vero: la gioventù è proprio finita. Ma che bello quando la musica altra è fatta così, che bello quando rispecchia i chiaroscuri di un momento cruciale dell'esistenza con tanto splendore.
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