Grant Lee Buffalo
Fuzzy
Negli anni 80, in America, folk e country diventano il rudimento essenziale dei musicisti alternativi: dopo anni di bizzarre sperimentazioni new-wave (la propulsione ritmica del funk, le diavolerie produttive di reggae e dub, il florilegio di tastiere elettroniche e di bowie-roxysmo), la musica rock scopre nuovi significati in settori che credeva ampiamente decodificati, vestendoli a nuovo (basti pensare al folk-non folk dei Violent Femmes, allo spirito neo-hippy del country deturpato dai Meat Puppets, alle radici folk e cantautorali di Husker Du e Replacements, alle lunghe cavalcate old-fashined dei Dream Syndicate e del paisley underground).
I Grant Lee Buffalo, in tal senso, forse irrompono con un attimo di ritardo, quando sembra che la scena abbia già dato il meglio. Credo sia per questo che li anima una certa fretta: vogliono dare tutto e darlo subito, pubblicare al debutto il capolavoro della vita.
Hanno unarma segreta, per riuscire nellimpresa: il superiore talento compositivo e lirico di Grant Lee Phillips, che per la band californiana non è tanto Brian Ferry, quanto un misto fra lui e Brian Eno, se parliamo di importanza e di ruolo cruciale per lo sviluppo delle traiettorie del gruppo.
E il 1993, e direi che questo basta e avanza per disegnare uno scenario ben preciso, specie sulla sponda ovest dellAtlantico: siamo in piena era grunge, e anche la terra del surf si sente al centro del mondo, visto che in tempi non sospetti ha patrocinato la rinascita della musica heavy e del suo immaginario fosco, partorendo generi meravigliosamente aberranti come hardcore, beach punk e metal estremo.
Grant Lee Phillips, in tal senso, è però poco californiano. O meglio lo è in modo atipico, a fine anni 80: se vogliamo scovare qualche antesignano nella terra del sole, dobbiamo risalire a illustri predecessori come Neil Young o David Crosby (quantomeno per lattitudine e le ambizioni letterarie dei testi), oppure possiamo ipotizzare una qualche somiglianza con gli American Music Club (per le atmosfere rarefatte di alcuni fra i brani migliori).
Ma si forza sempre la mano: Grant Lee Phillips in realtà è un pezzo unico, e decisamente fuori moda nella California del tempo (un po come lo è anche il cantastorie maledetto Mark Kozelek); un pezzo unico che come auspicato - riesce a fare subito centro, tanto che Fuzzy è la gemma della sua produzione nei secoli dei secoli, senza timore di smentite.
Primo tassello fondamentale dellimpresa: Grant è un Poeta, e la p maiuscola non lho messa per caso. I suoi testi, al crocevia fra limpegno sociale del giovane Dylan, il commovente fuoco incrociato di emozioni di Neil Young e lamarezza da giovane adulto di Bob Mould e di Paul Westerberg, sono decisamente affascinanti.
Secondo punto cruciale per cogliere la dimensione dellopera: i riferimenti culturali e musicali dei Grant Lee Buffalo sono numerosi e molto personali.
La lunga, nobile tradizione di country e folk viene verniciata a nuovo per diventare potente metafora degli interrogativi del tempo presente. Il sound è forgiato dalla tradizione, ma Grant Lee Phillips non è tipo da crogiolarsi a lungo nel suo ristretto immaginario.
Ecco allora che arriva Jupiter and Teardrop, lampante omaggio al David Bowie (sì, proprio lui!) di Moonage Daydream: la chitarra di fatto percorre una successione di accordi del tutto analoga, e la melodia è una sua splendida, autorevole variazione in chiave country. Pura elettricità e un ritornello che prorompe quasi gioioso: Jupiter and Teardrop è una sorta di country-rock aromatizzato al glam che sembra senza precedenti.
Ed è solo linizio: anche la melodia cullante di Fuzzy, quasi un Neil Young amareggiato in versione lievemente psichedelica-astratta (stile American Music Club), scuote le fondamenta. Il video, che allepoca fece un certo scalpore, è Grant Lee Philipps nudo e crudo: aggiorna il linguaggio di protesta e il messaggio dissidente della canzone dautore più consapevole ai tempi di MTV.
Fuzzy è nellOlimpo perché contiene praticamente solo pezzi di storia: la qualità media è così grande che quasi ti spiazza.
Ascoltare per credere il country-rock rilassato e quasi convenzionale (ma nel miglior modo possibile) di The Hook, un inno delicato che mette alla berlina lassurdità della guerra, della propaganda che la trasfigura in uno scontro fra bene e male (Non credo in Superman, canta commosso Grant: e come dargli torto, a fronte di un immaginario bellico che celebra seminatori di morte come portatori di pace, insultando lo stesso significato delle parole).
La brillante e quasi spensierata Wish You Well non è da meno, perché pennella una delle melodie più accattivanti del disco (molto da REM, o da Replacements in stato di catalessi), con il chorus che sulle prime sembra mutilare la strofa, e che invece suona una meraviglia.
La briosa The Shining Hour, poi, dimostra che Phillips è fra i pochi musicisti alternativi che sanno cantare per davvero, perché la sua voce unisce calore umano, pulizia e dimestichezza da professionista e una forza espressiva limpida, da vero rock underground. Il ritmo marziale fa il resto, rendendo la canzone incalzante e godibilissima.
I capolavori assoluti arrivano soprattutto nella seconda, teorica facciata: Starsn stripes, ariosa e catartica, è quasi Neil Young che si cimenta con un pezzo di Tim Buckley (o anche il contrario), ma soprattutto è una tirata durissima e spietata contro il nazionalismo made in usa più becero (stelle e strisce accostate alla svastica: in America, più o meno, questo equivale a un calcio violento nelle palle).
Dixie Drug Store rovescia le carte in tavola: Grant questa volta più che cantare racconta (anche se si cimenta con un acuto - ai limiti del falsetto - da brividi), il pezzo è una specie di boogie-soul oscuro, impreziosito da aromi giunti freschi freschi da New Orleans, con la splendida voce femminile che rende la tavolozza sonora più ricca.
Non è finita: America Snoring altro pezzo da novanta - ha un tessuto melodico più aggressivo, anche perché lautore sfiora il grido, mentre sputa un ragionato disprezzo per il conformismo di facciata, spesso trincerato dietro i peggiori luoghi comuni nel cuore dellAmerica che ronfa. Si tratta dellunico brano che presenta una qualche venatura grunge, o forse sarebbe meglio dire da alt-rock vero e proprio, sulla falsariga dei Dream Syndicate.
Grace è notoriamente velvetiana sino al midollo: il suo noise - lastricato di belle intuizioni - arranca nelle lande desolate del sud (the lone ranger) e propone una lettura originale e vagamente folk dello stordente muro di rumore di Lou Reed & C.
Grant ha una personalità troppo forte per limitarsi a omaggiare: anche quando lo fa, riesce comunque a speziare il piatto con ingredienti DOC.
Lonirica (quasi un mix impossibile fra Kozelek, Dylan e Buckley) You just have to be crazy è lultimo capolavoro: una ninnananna che sorvola il pacifico, purissima, melliflua, senza sbavature.
Anche qui Grant non sbaglia: devi proprio essere un pazzo per non amare alla follia questo disco.
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