V Video

R Recensione

9/10

Grant Lee Buffalo

Fuzzy

 

Negli anni ’80, in America, folk e country diventano il rudimento essenziale dei musicisti alternativi: dopo anni di bizzarre sperimentazioni new-wave (la propulsione ritmica del funk, le diavolerie produttive di reggae e dub, il florilegio di tastiere elettroniche e di bowie-roxysmo), la musica rock scopre nuovi significati in settori che credeva ampiamente decodificati, vestendoli a nuovo (basti pensare al folk-non folk dei Violent Femmes, allo spirito neo-hippy del country deturpato dai Meat Puppets, alle radici folk e cantautorali di Husker Du e Replacements, alle lunghe cavalcate old-fashined dei Dream Syndicate e del paisley underground).

I Grant Lee Buffalo, in tal senso, forse irrompono con un attimo di ritardo, quando sembra che la scena abbia già dato il meglio. Credo sia per questo che li anima una certa fretta: vogliono dare tutto e darlo subito, pubblicare al debutto il capolavoro della vita.

Hanno un’arma segreta, per riuscire nell’impresa: il superiore talento compositivo e lirico di Grant Lee Phillips, che per la band californiana non è tanto Brian Ferry, quanto un misto fra lui e Brian Eno, se parliamo di importanza e di ruolo cruciale per lo sviluppo delle traiettorie del gruppo.

E’ il 1993, e direi che questo basta e avanza per disegnare uno scenario ben preciso, specie sulla sponda ovest dell’Atlantico: siamo in piena era grunge, e anche la terra del surf si sente al centro del mondo, visto che in tempi non sospetti ha patrocinato la rinascita della musica heavy e del suo immaginario fosco, partorendo generi meravigliosamente aberranti come hardcore, beach punk e metal estremo.

Grant Lee Phillips, in tal senso, è però poco californiano. O meglio lo è in modo atipico, a fine anni ‘80: se vogliamo scovare qualche antesignano nella terra del sole, dobbiamo risalire a illustri predecessori come Neil Young o David Crosby (quantomeno per l’attitudine e le ambizioni letterarie dei testi), oppure possiamo ipotizzare una qualche somiglianza con gli American Music Club (per le atmosfere rarefatte di alcuni fra i brani migliori).

Ma si forza sempre la mano: Grant Lee Phillips in realtà è un pezzo unico, e decisamente fuori moda nella California del tempo (un po’ come lo è anche il cantastorie maledetto Mark Kozelek); un pezzo unico che – come auspicato - riesce a fare subito centro, tanto che “Fuzzy” è la gemma della sua produzione nei secoli dei secoli, senza timore di smentite.

Primo tassello fondamentale dell’impresa: Grant è un Poeta, e la p maiuscola non l’ho messa per caso. I suoi testi, al crocevia fra l’impegno sociale del giovane Dylan, il commovente fuoco incrociato di emozioni di Neil Young e l’amarezza da giovane adulto di Bob Mould e di Paul Westerberg, sono decisamente affascinanti.

Secondo punto cruciale per cogliere la dimensione dell’opera: i riferimenti culturali e musicali dei Grant Lee Buffalo sono numerosi e molto personali.

La lunga, nobile tradizione di country e folk viene verniciata a nuovo per diventare potente metafora degli interrogativi del tempo presente. Il sound è forgiato dalla tradizione, ma Grant Lee Phillips non è tipo da crogiolarsi a  lungo nel suo ristretto immaginario.

Ecco allora che arriva “Jupiter and Teardrop”, lampante omaggio al David Bowie (sì, proprio lui!) di “Moonage Daydream”: la chitarra di fatto percorre una successione di accordi del tutto analoga, e la melodia è una sua splendida, autorevole variazione in chiave country. Pura elettricità e un ritornello che prorompe quasi gioioso: “Jupiter and Teardrop” è una sorta di country-rock aromatizzato al glam che sembra senza precedenti.

Ed è solo l’inizio: anche la melodia cullante di “Fuzzy”, quasi un Neil Young amareggiato in versione lievemente psichedelica-astratta (stile American Music Club), scuote le fondamenta. Il video, che all’epoca fece un certo scalpore, è Grant Lee Philipps nudo e crudo: aggiorna il linguaggio di protesta e il messaggio dissidente della canzone d’autore più consapevole ai tempi di MTV.

Fuzzy” è nell’Olimpo perché contiene praticamente solo pezzi di storia: la qualità media è così grande che quasi ti spiazza.

Ascoltare per credere il country-rock rilassato e quasi convenzionale (ma nel miglior modo possibile) di “The Hook”, un inno delicato che mette alla berlina l’assurdità della guerra, della propaganda che la trasfigura in uno scontro fra bene e male (“Non credo in Superman”, canta commosso Grant: e come dargli torto, a fronte di un immaginario bellico che celebra seminatori di morte come portatori di pace, insultando lo stesso significato delle parole).

La brillante e quasi spensierata “Wish You Well” non è da meno, perché pennella una delle melodie più accattivanti del disco (molto da REM, o da Replacements in stato di catalessi), con il chorus che sulle prime sembra mutilare la strofa, e che invece suona una meraviglia.

La briosa “The Shining Hour”, poi, dimostra che Phillips è fra i pochi musicisti alternativi che sanno cantare per davvero, perché la sua voce unisce calore umano, pulizia e dimestichezza da professionista e una forza espressiva limpida, da vero rock underground. Il ritmo marziale fa il resto, rendendo la canzone incalzante e godibilissima.

I capolavori assoluti arrivano soprattutto nella seconda, teorica facciata: “Stars’n stripes”, ariosa e catartica, è quasi Neil Young che si cimenta con un pezzo di Tim Buckley (o anche il contrario), ma soprattutto è una tirata durissima e spietata contro il nazionalismo made in usa più becero (stelle e strisce accostate alla svastica: in America, più o meno, questo equivale a un calcio violento nelle palle).

Dixie Drug Store” rovescia le carte in tavola: Grant questa volta più che cantare racconta (anche se si cimenta con un acuto - ai limiti del falsetto - da brividi), il pezzo è una specie di boogie-soul oscuro, impreziosito da aromi giunti freschi freschi da New Orleans, con la splendida voce femminile che rende la tavolozza sonora più ricca.

Non è finita: “America Snoring” – altro pezzo da novanta - ha un tessuto melodico più aggressivo, anche perché l’autore sfiora il grido, mentre sputa un ragionato disprezzo per il conformismo di facciata, spesso trincerato dietro i peggiori luoghi comuni nel cuore dell’America che ronfa. Si tratta dell’unico brano che presenta una qualche venatura grunge, o forse sarebbe meglio dire da alt-rock vero e proprio, sulla falsariga dei Dream Syndicate.

Grace” è notoriamente velvetiana sino al midollo: il suo noise - lastricato di belle intuizioni - arranca nelle lande desolate del sud (“the lone ranger”) e propone una lettura originale e vagamente folk dello stordente muro di rumore di Lou Reed & C.

Grant ha una personalità troppo forte per limitarsi a omaggiare: anche quando lo fa, riesce comunque a speziare il piatto con ingredienti DOC.

L’onirica (quasi un mix impossibile fra Kozelek, Dylan e Buckley) “You just have to be crazy” è l’ultimo capolavoro: una ninnananna che sorvola il pacifico, purissima, melliflua, senza sbavature.

Anche qui Grant non sbaglia: devi proprio essere un pazzo per non amare alla follia questo disco.

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Voto degli utenti: 8,8/10 in media su 16 voti.
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DonJunio 9,5/10
target 9/10
Cas 9,5/10
zagor 8,5/10
Lelling 8,5/10
Lepo 10/10

C Commenti

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DonJunio (ha votato 9,5 questo disco) alle 15:45 del 8 settembre 2014 ha scritto:

Vabbè, disco della madonna. "America Snoring" è la "Southern Man" degli anni 90, Il connubio tra la voce virtuosa di Grant e la sua dodici corde col compressore era inimitabile in quegli anni. Recensione perfetta.

FrancescoB, autore, (ha votato 9 questo disco) alle 16:16 del 8 settembre 2014 ha scritto:

Sì un disco epocale (anche se a suo modo "fuori tempo", nel 1993), come spero di essere riuscito ad esprimere, pur con tutti i miei limiti. Non c'è veramente una canzone-una meno che splendida.

target (ha votato 9 questo disco) alle 17:09 del 8 settembre 2014 ha scritto:

Quando uscì avevo 13 anni, ascoltavo dance e mi apprestavo a seguire il baraccone brit-pop. Ma "Fuzzy" (la canzone) mi stregò, e questo disco non mi sfuggì. Amore incondizionato. Bravo Francè. (Non c'entra, ma c'entra: l'altra sera ho visto un concerto dei Non Voglio Che Clara, e nel bis hanno suonato - peraltro molto bene - "Mockingbirds": per dire quanto davvero i Grant Lee Buffalo in quegli anni lasciassero il segno sugli ascoltatori più disparati).

Cas (ha votato 9,5 questo disco) alle 19:16 del 8 settembre 2014 ha scritto:

disco immenso. "fuori dal tempo" proprio: tra 50 anni sarà come ascoltarlo nel 1993, nel 2003 o nel 2014...

nebraska82 (ha votato 9 questo disco) alle 23:13 del 12 settembre 2014 ha scritto:

Splendido e ricco di sfumature, un gruppo che ha avuto oltretutto diversi epigoni, dai Wilco ai War on drugs.

benoitbrisefer (ha votato 8 questo disco) alle 14:23 del 14 settembre 2014 ha scritto:

Bella e doverosa recensione per uno dei talenti nascosti più puri della musica alternativa americana; Grant Lee è certamente autore fuori dagli schemi dominanti all'inizio dei 90 e ne vengono correttamente messe in evidenza le molteplici influenze (American Music Club, Rem, Velvet, Dylan, Neil Young etc.). Manca un tassello però, quello delle radici wave dark-psichedeliche degli Shiva Burlesque nei quali il nostro militava (attivi nella seconda metà degli anni '80),

radici che vengono fuori in modo inequivocabile quando GLP fa uscire quell'ottima raccolta di cover (guarda caso intolata Nineteeneighties) che omaggia il meglio del rock folk alternativo di quella decade (Rem, Church, Pixies) e il post punk britannico (Joy Division, Bunnymen, Cure, Psychedelic Furs).

nebraska82 (ha votato 9 questo disco) alle 10:42 del 15 settembre 2014 ha scritto:

rispetto agli Shiva Burlesque pero ' le radici eighhties sono decisamente annacquate per me, fuzzy suona proprio come un disco del 1993; anche se i vari riferimenti lo mettono un po' fuori dal tempo.

benoitbrisefer (ha votato 8 questo disco) alle 13:30 del 15 settembre 2014 ha scritto:

Sono assolutamente d'accordo con te sul fatto che distanze abissali separano GLB e Shiva Burlesque; quello che volevo dire è che nelle molteplici influenze che rendono l'opera di Grant Lee Philips un unicum c'è pure quella wave. Com ead esempio, parlando di un gruppo con aspetti similari ai GLB, non potrei mai affermare che i Church sono un gruppo post-punk, ma l'attitudine vocale di Kilbey e un cero modo di fare e sentire la musica tiene conto anche di quelle influenze.

zagor (ha votato 8,5 questo disco) alle 18:51 del 15 settembre 2014 ha scritto:

io citerei i Violent Femmes tra le loro influenze.

nebraska82 (ha votato 9 questo disco) alle 21:12 del 18 settembre 2014 ha scritto:

beh i Church sono comunque una band nata in piena new wave...poi certamente le cover che tu citi testimoniano quella passione.

FrancescoB, autore, (ha votato 9 questo disco) alle 18:48 del 16 settembre 2014 ha scritto:

Ci sta Zagor, però ecco i Violent Femmes sono "sfilacciati", e questo non vuole essere un modo per sminuirli: è una descrizione del loro meraviglioso sound, un po' mutilato e interrotto, laddove quello dei Grant Lee Buffalo mi sembra più sferico e pieno, i loro brani procedono meno "a strappi".

DonJunio (ha votato 9,5 questo disco) alle 20:56 del 18 settembre 2014 ha scritto:

A proposito di Neil Young, negli anni 90 i GLB suonavano spesso la sua 'For the turnstiles" dal vivo

Franz Bungaro (ha votato 9 questo disco) alle 10:08 del 3 ottobre 2014 ha scritto:

Anch'io avevo 13 anni quando uscì questo gioiello di disco, e mi fa un certo effetto ora ritrovare pezzi di musica che avevi pressoché rimosso dalla tua memoria e che tanto ti riportano alla mente. Un pò come quando torno nella casa dove sono cresciuto e ritrovo foto, cd e musicassette di quando ero pischelletto (un rito che ripeto regolarmente da 18 anni ormai). I riferimenti e le coordinate di Francesco sono tutti perfetti, specie l'introduzione in cui lo spaccato di certa scena musicale è ricostruito alla perfezione. Un quadro che ho vissuto con necessari limiti allora (ascoltavo poco oltre al grunge e al rock mainstream) e che ho -fortunatamente - riscoperto con il tempo. Un disco fondamentale degli anni '90, i fantasmagorici anni 90. Bravo Fra!

baronedeki (ha votato 9,5 questo disco) alle 19:15 del 27 novembre 2016 ha scritto:

Tipico album che piace molto ai critici ed ai palati fini un po meno alla massa. Cosa aveva fuzzy per non raccogliere ciò che meritava. Ottimo cantante anzi super testi impegnati sinceri mai banali e non patetici. Musica di gran classe con arrangiamenti sia essi scarni o complessi, Un mix perfetto di rock folk country e un pizzico di psichedelia che non guasta mai. L'unica risposta che riesco a darmi non so se corretta è che nel 93 tutti erano alla ricerca dei nuovi Nirvana e che l'album in questione era poco pop e poco indie .Alcune volte stare nella via di mezzo è conveniente altre volte no. Peccato meritavano molto di più.

Lepo (ha votato 10 questo disco) alle 17:40 del 15 gennaio 2018 ha scritto:

Lo sto riascoltando ripetutamente in questi giorni. Capolavoro totale, country glam con frequenti escursioni psichedeliche, probabilmente il più grande disco americano degli anni ‘90, proprio grazie alle massicce dosi di estetismo e amore per la pura Forma tipicamente britannici che pervadono le undici tracce. Molto bella la recensione, la leggo con colpevole ritardo.

nebraska82 (ha votato 9 questo disco) alle 22:15 del 4 dicembre 2018 ha scritto:

che bella stars and stripes, forse il brano migliore del disco..il piu' particolare e onirico, quantomeno....

zagor (ha votato 8,5 questo disco) alle 14:23 del 25 febbraio 2023 ha scritto:

"Did ya see it on TV or in your own backyard Gate's LAPD And they called The National Guard

Then the tanks came rolling down Sunset Boulevard And I hear America is snoring" che disco!